Il racconto: Amatrice, un anno dopo il sisma del 24 Agosto 2016
La strada che conduce ad Amatrice è tortuosa. L’Amatrice di oggi è ciò che resta di una città devastata dal terribile sisma del 24 agosto 2016. È trascorso un anno, e oggi ci saranno le celebrazioni per ricordare le oltre 200 vittime. Lungo la strada – curve a gomito si susseguono senza sosta prima del nostro arrivo – incrociamo un cartello scolorito, sul quale leggiamo: “Benvenuti ad Amatrice”, “uno dei borghi più belli d’Italia”. Si, perché prima che il terremoto colpisse duramente Amatrice, questo piccolo comune era una meta ambita. Un luogo ricco di storia e cultura, vivo ed amato.
L’Amatrice di oggi è, invece, un luogo surreale. All’orizzonte un cumulo di macerie. Intere abitazioni sgretolate che a guardarle fa male. Si intravede il vecchio campanile. Ancora in piedi, quasi un corpo estraneo, in mezzo a tanta devastazione. Oggi Amatrice è tutto questo. Tutto ciò che ne rimane: la zona rossa. Una vasta area inaccessibile, sorvegliata dagli alpini e, delimitata dalle transenne che non possono però nascondere le macerie. ALT! Il cartello ricorda dove non si può più andare. Gli unici, ad entrare ed uscire dalla zona rossa fino a tarda sera, sono grandi camion carichi di massi, detriti e macerie. Qualcosa si muove. Qualcosa si sta facendo allora per permettere la ricostruzione.
A quasi un anno dal terremoto, solo da un mese si è iniziato a portare via le prime macerie. Nei pressi della zona rossa incontriamo due uomini. Come tutti, passanti e residenti, guardano ancora increduli ciò che resta di Amatrice. Parlano tra loro, senza oltrepassare le transenne che delimitano tutt’intorno la zona rossa. Ci avviciniamo e gli chiedo se sono di Amatrice. Uno dei due risponde: “Io risiedo qui. Da quando sono nato ho sempre vissuto e lavorato ad Amatrice”. L’altro, che lo accompagna, mi dice di avere una casa poco più in là che, fortunatamente, ha retto al sisma e che ha costruito con le proprie mani. Decido, allora, di far loro qualche domanda. Dico loro di aver visto un paio di camion trasportare grandi quantità di macerie. E aggiungo che, nonostante sia sera, si continua a lavorare. Quindi qualcosa si muove fortunatamente. Mi guardano allora con occhi scettici, quasi per dire: “si vede che non sei di queste parti”. Quasi spontaneamente e bisognosi di sfogarsi, entrambi rispondono vivacemente alle mie domande. Uno dei due dice: “Amatrice è morta”, voglioso di far sapere a chi viene da fuori e non ha vissuto direttamente il dramma del terremoto, non ha visto vicini di casa o amici morire o la propria abitazione andare completamente distrutta che, la sua città è morta e che non crede nella ricostruzione. Almeno non in tempi brevi. Penso, come dar loro torto. Dico di arrivare dall’Abruzzo. Di aver visitato l’Aquila, ancora oggi una città-cantiere, che stenta a ripartire dopo quasi 10 anni e, di aver girato tra i borghi della provincia, colpiti più duramente dal sisma del 2009. Ciò non li rincuora, ma li fa sospirare. C’è silenzio e mi chiedo allora se sia giusto continuare a fare domande. Per quei due uomini, il dramma è reale. Non è soltanto una notizia giornalistica. Durante quei minuti di pausa, mi chiedo cosa ne pensano della devastazione provocata dal sisma. Mi chiedo se sono consapevoli delle responsabilità umane, dietro un sisma che ha provocato molte morti che, forse, potevano essere evitate.
Rompo il silenzio e chiedo loro quali abitazioni sono crollate sin da subito o hanno subìto i danni più ingenti. Uno dei due mi risponde: “Vede la scuola, quella oggetto di polemica e per la quale hanno accusato il nostro sindaco? È laggiù, fuori dalla zona rossa. Risale al 1930. È stata anche la mia scuola, quando ero bambino, si figuri. Ora ho 50 anni”. E l’altro continua: “Di un appalto di 20 milioni di euro per metterla in sicurezza, ne sono stati spesi 500 mila, forse! A quei tempi, quando si parlava di intervenire per mettere in sicurezza, essendo questo un territorio ad alto rischio sismico, si vedevano numerose imprese campane operare ad Amatrice. Non è mai stata fatta chiarezza sui lavori alla scuola. In realtà, i soldi sono stati spesi solo in parte per mettere in sicurezza l’edificio, si sono limitati ad intonacare e ripitturare. Tutto qui. Ne sono certo”. Con tono polemico mi riferisce che, alla fine, esce sempre tutto fuori, quando è tardi e il danno è oramai fatto.
“Fino a due mesi prima, c’erano solo quelli della protezione civile e l’esercito. I camion sono arrivati da poco!” E aggiungono: “le case che vede distrutte, qui proprio qui, guardi. Sono rimasti intatti solo i tetti. Se lo chiede il perché? Perché…” Uno dei due, che risiede ad Amatrice, mi racconta che nel 1979, la città è stata colpita da un altro forte sisma. All’epoca, lo Stato si era preoccupato di finanziare i residenti per mettere in sicurezza i tetti delle abitazioni, che un tempo, come si usa nelle zone di alta montagna, erano in legno. “Io”, dice, “sono uno di quelli che quei soldi li ha ricevuti e li ha utilizzati, seguendo le direttive dello Stato per mettere in sicurezza il tetto e, ora, grazie ai sopralluoghi della protezione civile, ho scoperto che la mia casa non ha retto, perché il tetto, in cemento armato, era troppo pesante per la struttura. Puff! Tutto giù”.
“E la mia casa non è la sola. La maggior parte delle abitazioni non ha retto per questo motivo. Interventi abusivi o con l’assenso dello Stato, fatti male. Senza controllo. Nessuno sa cosa significa mettere in sicurezza la propria abitazione. I più si sono affidati allo Stato o alcuni hanno costruito abusivamente e poi, ecco, scopre dopo di essere intervenuto senza criterio. Male. Un mio amico c’è morto, sotto la propria abitazione. Ancora una volta. Tetto intatto, sotto l’intera struttura sgretolata”. L’altro, quello che la casa l’ha costruita con le proprie mani, prova a spiegarmi bene, perché alcune abitazioni non hanno retto. La sua ha subìto pochi danni. “Il tetto, non è in cemento armato e, così, la struttura ha retto meglio”. Uno dei due mi guarda e dice: “Vogliamo parlare della Chiesa. La vede? Solo quel che resta è stata puntellata. Hanno aspettato che crollasse tutta o, quasi, per intervenire. “Se ci penso”, dice, “mi viene una tale tristezza. Un bene storico andato via così. Nell’indifferenza. Era una bella Chiesa. Davvero bella, mi creda!”
Chiedo loro delle casette, di cui tanto si parla. Mi dicono che sono poco più in là. Non sono ancora tutte e, il centro commerciale, non funziona ancora tutto. C’è il supermercato. Lo superi e vedrà “l’altra Amatrice”.
Li saluto e mi dirigo verso il bar. Le due ragazze che mi servono il caffè mi dicono che loro hanno aperto sin da subito. Da ottobre scorso. Non hanno molta voglia di parlare. Il loro locale è diventato un punto di aggregazione. L’unico. Più in là le casette.
Molti si fermano vicino le transenne. Alcuni sembrano pregare, rivivendo forse il dramma. Gli sguardi, i più, sono tristi, realmente tristi. Una tristezza che si tocca con mano. Si percepisce a colpo d’occhio. Oltre le macerie, le montagne, verdi e rigogliose. Imponenti, custodiscono ancora un luogo che non sembra più esistere. Mi guardo intorno. Un fermo immagine.
L’ultimo fine settimana del mese Amatrice non rinuncia alla sua sagra. Evento, che la scorsa estate ha attirato migliaia di persone. Circostanza che ha aggravato il bilancio delle vittime.
Mi viene in mente il ponte della rinascita, che abbiamo attraversato ore prima. Lo si attraversa prima di giungere ad Amatrice.
Ammiro la forza di chi sceglie di restare, anche se ancora sotto una tenda o in una roulotte o in una delle casette. Ammiro chi resta, nonostante tutto, vicino alle proprie macerie e spera o, crede, che da esse si possa rinascere.