Islanda eterodossa: il Possibile e il Fato, mentre in Europa spira vento di restaurazione
Altra soluzione o l’eterna necessità del fato, l’austerity?
Di contro a un tagliare la spesa del welfare per esempio un sostenerla; di fronte all’univoco trattamento dell’austerity, la terapia dello stimolo all’economia.
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Terapie sperimentali entrambe ma, se della prima ormai conoscono i frutti, strange fruit, ben scarsi e amari, tutti i paesi cui è stata prescritta da politici, economisti e ministri delle Finanze; della seconda, la terapia dello stimolo all’economia, poco se ne parla, se ne sparla molto, e soprattutto si tende a ridimensionarne le possibilità con essa di salvare il corpo economico dei cittadini.
Dal global spinto, dal capitalismo finanziarizzato dei paesi occidentali si può uscire, basta volerlo e soprattutto basta avere una visione di prospettiva comune, cominciando dal proprio paese.
Magari apprendere come hanno fatto in altri paesi e portare nel proprio le best practices con il sistema del copia-incolla, si, ma poi modifica, elabora e adatta alla situazione specifica.
Per cambiare risultati è necessario mettere a fuoco l’obiettivo, spodestare la crescita economica dal primo posto e metterci il corpo sociale economico che sono i cittadini. Se ne trarrà beneficio per entrambi.
Son necessari la volontà politica e un approccio guidato dai dati, che permetta di imparare dai successi e dai fallimenti.
Voglio dire che bisogna incidere senza uccidere la salute della comunità. Un medico chirurgo si sarebbe già reso conto di star perdendo il paziente, come mai i politici non si accorgono di aver quasi perso la ricchezza di un paese, il corpo dei cittadini?
Quello che è importante è la visione presente a se stessi, che sposti l’asse dall’entità economica e guardi al corpo economico, quello dei cittadini.
Nella ricerca per comporre questo articolo mi sono imbattuta in alcuni testi e articoli interessanti. Portatori di una diversa visione rispetto ai dettami del capitalismo della finanza attuale.
Altra soluzione o l’eterna necessità del fato, l’austerity?
Di contro a un tagliare la spesa del welfare per esempio un sostenerla; di fronte all’univoco trattamento dell’austerity, la terapia dello stimolo all’economia.
Terapie sperimentali entrambe ma, se della prima ormai conoscono i frutti, strange fruit, ben scarsi e amari, tutti i paesi cui è stata prescritta da politici, economisti e ministri delle Finanze; della seconda, la terapia dello stimolo all’economia, poco se ne parla, se ne sparla molto, e soprattutto si tende a ridimensionarne le possibilità di salvare il corpo economico dei cittadini.
Dicono gli autori di un testo illuminante, David Stuckler e Sanjay Basu: “Il farmaco “austerity” si propone di ridurre i sintomi del debito e del deficit, oltre a curare la recessione. Taglia la spesa pubblica per la copertura sanitaria, i sussidi ai disoccupati e il sostegno alle politiche abitative”.
Secondo il Nobel per l’economia, Paul Krugman, è stato come sostenere che “le mense per i poveri avevano causato la Grande depressione”.
Al momento della formazione della bolla dei mercato immobiliare in Usa, nel 2007, con ripercussioni negative sull’economia mondiale, ne seguì che, per ridurre il deficit, alcuni politici, tra i quali il primo ministro inglese David Cameron, decisero di intraprendere la strada dell’austerity. Tutti seguirono o dovettero seguire, nel resto d’Europa, su pressione di FMI e BCE.
Tagliati investimenti nelle politiche sociali, i cambiamenti in peggio furono sotto gli occhi di tutti, nella vita di ogni giorno.
Islanda: approccio eterodosso alla crisi.
L’ approccio «non ortodosso» dell’Islanda per una risoluzione della crisi, o perlomeno per la riduzione delle conseguenze peggiori della crisi che si profilava per l’intera Europa, fu condotto sull’ondata di una pervicace protesta popolare, con qualche titubanza della classe politica, che seguì l’onda più che guidarla.
Perfino l’FMI finì per ammettere che si doveva trarne ispirazione.
E aggiunse che i motivi del successo potevano essere: 1) l’impegno dell’Islanda nel perseguire il proprio programma; 2) la decisione di imporre perdite agli obbligazionisti invece che ai contribuenti; 3) la salvaguardia del welfare che ha protetto i disoccupati.
In occasione del World Economic Forum di Davos del 2013, il presidente islandese Olafur Ragnar Grímmson ebbe modo di dichiarare: “Siamo stati abbastanza saggi da non seguire l’ortodossia prevalente nel mondo finanziario occidentale degli ultimi trent’anni. Diversamente da quanto successo in altri Paesi, non abbiamo introdotto controlli valutari, abbiamo lasciato fallire le banche e sostenuto i poveri, senza ricorrere a misure di austerity”.
Se si pensa poi che il documento di base, il famoso paper di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, su cui sono state asserite le politiche di austerity contiene anche errori di metodo e di calcolo, beh, allora che se ne traggano pure deduzioni.
La deduzione a caldo è che da esso ne sono state tirate fuori indiscutibili verità ontologiche destinate a magnificare le sagge e lungimiranti scelte o proposte di politica economica con segno austerity.
A mostrare gli errori, alcuni grossolani e sospetti, bastò un working paper a cura di Thomas Herndon, Michael Ash e Robert Pollin dell’Università del Massachusetts, Amherst che corresse il tiro, dimostrando come i risultati originali della ricerca di Reinhart e Rogoff fossero basati su problemi metodologici, manipolazioni dei dati ed errori di calcolo “originali”. Eliminandoli dall’analisi, il tasso di crescita medio dei paesi ad alto debito così balzava dal –0.1% al +2.2%, una differenza piuttosto rilevante.
La rivoluzione silenziata, l’hanno definita alcuni.
Una bella storia che viene dal freddo parla di Islanda dunque e della rinascita con molti sacrifici e di una luce in fondo al tunnel.
È ben strano che dell’Islanda se ne è parlato soltanto per l’eruzione di un vulcano, l’Eyjafjöll che, nel 2010, ha bloccato gli aeroporti europei e per la partecipazione della squadra islandese agli europei 2016, arrivata ai quarti di finale. È rimasta sui giornali soprattutto per la spensieratezza del “geyser sound“, che ha coinvolto giocatori e tifosi sul campo e al ritorno a casa.
Ma di questa “rivoluzione” ben più temeraria e temibile per la globalizzazione galoppante, pochi scrissero al tempo in cui accadde. E molti la resero semplicistica formula che suonava più o meno come “L’Islanda non paga il debito pubblico, non entra nell’eurozona, ha rifiutato il sostegno dell’FMI, si risolleva in due anni”. Ma chi è questo mini gigante? L’Islanda, appunto.
Con la decisione di porre fine alla spirale tragica dei mercati, l’Islanda ha creato un precedente in grado di minacciare il dominio del capitalismo tardivo (tradotto da Andrea Sparacino).
Precisazioni per proseguire.
Per il caso islandese occorre fare delle precisazioni.
La prima è che non è vero, come si lesse spesso, che l’Islanda abbia detto «no» al Fondo monetario internazionale; anzi quest’ultimo ha operato per il salvataggio del paese.
La seconda è che l’Islanda non ha lasciato fallire le banche, ma le ha nazionalizzate, “cosa che in Italia, ad esempio, sembra stranamente ancora tabù”.
La terza è che la protesta di massa continuata a più riprese ha prodotto che l’Islanda pagasse ai depositanti stranieri della filiale online IceSave il giusto e niente di più.
La quarta è che l’Islanda ha provato con una costituzione in progress a bloccare lo strapotere finanziario e che nonostante sia arrivata a un passo dalla ratifica, approvata da 2/3 dei cittadini (67 per cento) in un referendum nazionale, si è fermata in parlamento.
La quinta è che l’Islanda ha preso la crisi come una opportunità di cambiare le politiche economiche della sua società economica e sociale.
Ha sperimentato lo stimolo all’economia, che non ha evitato la disoccupazione, certo, che non ha risolto la crisi in un battibaleno, sicuramente, ma l’Islanda ha messo a punto il principio cardine proprio di una comunità di qualunque latitudine: ha deciso di sostenere un’altra possibile soluzione alla crisi.
La recessione non è passata in breve tempo, ma si può dire con certezza che l’Islanda è stata risparmiata dalla Austerity e dai suoi danni diretti e collaterali.
Ha tenuto fede al principio della socialità e se ne è fatta carico non chiudendo gli occhi davanti alle situazioni di disagio sociale e sanitario, derivanti dalla disoccupazione ma, anzi mantenendo gli investimenti a suo sostegno.
Ha, per esempio, sostenuto il debito dei mutui di chi a causa del tracollo non riusciva più a pagare i ratei e una relazione pubblicata dalla Icelandic Financial Services Associacion ha reso noto che a partire dal 2008 le banche islandesi hanno annullato debiti e mutui contratti in valuta estera a circa un quarto della popolazione, per una cifra totale che ammontava al 13 per cento del Pil islandese.
L’accordo stretto con le banche prevedeva che i debiti che superassero il 110 per cento del valore della casa doveva essere annullati.
Anche una sentenza della Corte Suprema del giugno 2010 dichiarò illegali i prestiti indicizzati su valute estere.
La sesta precisazione è che, a differenza di Usa e Europa, l’Islanda ha continuato le inchieste per far luce sul crack finanziario del 2008 fino alle condanne di 26 banchieri per un totale di 74 anni di carcere, nel 2015. E non dimentichiamo anche la condanna, nel 2012, dell’ex premier islandese Geir Hilmar Haarde. Fu condannato perché non verificò i pericoli per lo Stato.
Anche l’Islanda aveva richiesto di entrare a far parte dell’Europa Unita nel 2009. E lungo il cammino è accaduto che abbia ritirato la richiesta nel 2015. Perché? Perché una Europa siffatta a colpi di austerity per i cittadini europei e a colpi di spugna per i debiti dei finanzieri, quelli rampanti che fanno i soldi buttando giù l’economia di un paese, non l’hanno voluta?
Facciamo il punto.
Tutto è cominciato ad oscurarsi nel 2008.
Oggi con i dati al 2016 è un territorio di più o meno 100mila kmq, abitato da 334.252 persone.
Allora nel 2008 erano poco più di 320mila.
Il paese è situato poco più a sud della Groenlandia.
Storia ante 2008.
Una crescita all’insegna del neoliberismo puro, tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, aveva arricchito il paese.
Nel 2003 le banche tutte privatizzate, con il meccanismo di attirare investimenti stranieri, offrivano conti online, a costi ridotti di gestione e tassi di interesse alti.
I conti di stranieri soprattutto olandesi e inglesi proliferarono addensandosi nel prodotto IceSave; aumentò così il conto deposito dei risparmi, e aumentò anche il debito estero delle banche interessate, tutte e tre le banche islandesi.
Se nel 2003 aveva raggiunto quota 200% del Pil islandese, nel 2007, raggiunse il tetto del 900%. Il colpo di coda del grande serpente finanziario cresciuto fino alla bolla dei mercati del 2008 definì l’annichilimento dell’economia islandese.
L’Islanda si svegliò come dopo aver fatto un capitombolo.
Tutte e tre le principali banche del paese, la Landsbanki, la Kaupthing e la Glitnir, fallirono e vennero nazionalizzate.
Ad esso seguì il tonfo della corona sull’euro, in perdita dell’85%. La non solvibilità interna nata dal buco delle banche e il mancato afflusso di fondi esteri dovuto al fallimento della Lehman Brothers che spazzava capitali nel mondo avevano centuplicato il debito.
È l’anno nero, il 2008.
Si arrivò alla dichiarazione di bancarotta del paese. Venne chiesto dal Primo Ministro conservatore Geir Haarde, alla guida del paese, un prestito al Fondo Monetario Internazionale (programma “Stand-By-Arragement”) di 2 miliardi e 100 milioni di dollari, e di altri 2 miliardi e mezzo alla Russia, defilatasi, e che finì per essere concesso in currency swap da Norvegia, Svezia, Finlandia e Danimarca.
E ci misero lo zampino Olanda e Inghilterra.
A cavallo del prestito del Fondo Monetario che ci fu e che venne onorato dall’Islanda, anzi addirittura con anticipo sulla tabella dei rimborsi, si insinuò la richiesta di Olanda e Inghilterra di riavere quanto avevano rimborsato ai propri concittadini depositanti della filiale online IceSave.
Ben due richieste furono avanzate da Olanda e Inghilterra nel tentativo risarcitorio. Una nel 2009 e un’altra nel marzo 2011. Entrambe sottoposte a referendum successivi ed entrambe bocciate. E per due volte il presidente islandese non ratificò le manovre.
Questo accadeva tra il 2009 e il 2011, mentre montava la protesta di piazza. Fu così determinata e convincente che il presidio della piazza del Parlamento islandese indusse le dimissioni dell’allora governo di destra.
Il nuovo governo islandese del 2009 per quanto di sinistra abdicò alle richieste della comunità economica internazionale.
Fu preparata una seconda definita manovra, nel 2011, che caricava sulle spalle di ogni singolo cittadino islandese circa 18mila euro, ossia l’intero pagamento del debito, del fallimento delle banche, di 3mld e mezzo di euro spalmato su 15 anni con un tasso di interesse del 5.5% all’anno.
Le proteste continuarono tanto da portare il capo dello stato islandese a non ratificare per la seconda volta la legge che autorizzasse la manovra finanziaria così combinata.
E qui il balletto solito in questi casi: il Fmi richiese all’Islanda di farsi carico del debito insoluto delle banche fallite, socializzandolo.
Sì, perché quando fallisce una banca non è la banca a pagare ma la comunità intera (ne sappiamo qualcosa in Italia?). A spingere verso questa draconiana misura c’era l’Olanda e l’Inghilterra, che volevano rientrare dei rimborsi effettuati nei confronti dei propri cittadini depositanti in Islanda.
Il debito era tra un privato, banca, e altri privati, depositanti. Se si fosse trattato di utili, se li sarebbero spartiti tra privati; trattandosi di debiti, le perdite venivano nazionalizzate.
Questa palese violazione del patto di cittadinanza montò la protesta, il rapporto di fiducia era stato messo sottosopra. Era ora di rivedere il principio per cui il debito fosse un’entità sovrana, nel cui nome l’intera nazione diventava sacrificabile. Sebbene, si ribadisce, si trattava di un debito di privati banchieri e finanzieri.
A cosa portò la protesta degli islandesi.
A due referendum popolari, uno nel 2010 e un altro nel 2011.
Quando fu chiaro che tale assunto fosse da cambiare, e che gli errori di gestione delle banche dovessero essere ripagati dalle banche stesse si riannodò il filo di fiducia tra cittadini islandesi e istituzioni.
Queste ultime di fronte alla protesta generalizzata si schierarono dalla parte dei loro rappresentati, i cittadini, per l’appunto.
Il capo dello Stato, Ólafur Ragnar Grímsson, oppose un netto rifiutò alla ratifica della legge su cui premeva la comunità internazionale perché il debito venisse parcellizzato sulle spalle dei cittadini islandesi e accolse di indire un referendum popolare, su cui potessero esprimersi definitivamente.
Iniziò la tregenda di pressioni e ritorsioni, si minacciarono manovre di isolamento dell’Islanda, il blocco del finanziamento concesso dall’FMI, nel caso in cui il referendum fosse passato.
Gli inglesi avrebbero adottato le misure antiterrorismo contro l’Islanda, con blocco dei conti personali.
Nonostante la svalutazione della moneta, le retribuzioni più basse fino all’11-13%, l’aumento delle tasse e il rigido controllo dei capitali, l’FMI e il piano lacrime e sangue pare abbia fatto rientrare l’Islanda a livelli quasi precrisi.
Thorvaldur Gylfason (professore di Economia alla Iceland University nonché uno dei 25 membri del Consiglio Costituente nel 2012), in una intervista disse: “Il nostro non è stato solo un collasso economico-finanziario. Credo invece che sia molto legato a una mancanza di cultura politica”.
Nel marzo 2010, al referendum chi sosteneva che il debito fosse pagato dalle banche ottenne il 93% delle preferenze. E nel secondo referendum ci fu un 59% dello stesso avviso.
Ne seguì il congelamento del prestito Fmi. Ciò non fermò le proteste tanto da portare il governo a muoversi per indagare sulle responsabilità civili e penali del crollo finanziario.
Ci fu un ordine di cattura internazionale della Interpool contro l’ex-Presidente della Kaupthing, Sigurdur Einarsson.
Molte furono le fughe dei rimanenti banchieri dalla Islanda.
Qualche islandese parla di una operazione di marketing.
Nel 2010 l’Islanda si diede da fare per uscire dalla crisi, creando un organismo con una partnership pubblico-privata, chiamato Promote Iceland.
L’obiettivo era di “migliorare l’immagine e la reputazione dell’Islanda, attirando turisti e investitori.
L’istituto è riuscito nel suo intento, e a colpi di campagne pubblicitarie con festival musicali e sponsorizzazioni sui social media, con “product placement” in produzioni cinematografiche e inviti a testate giornalistiche straniere”, ha portato il paese all’attenzione del pubblico internazionale.
Tanto che nel 2014 l’industria del turismo ha superato quella della pesca diventando la prima del paese.
In questi anni l’attenzione all’Islanda è stata pilotata dall’Istituto, facendo passare in luce sussidiaria la situazione politica che, in fondo, veniva attivata solo sui progetti “avviati durante il mandato del governo della sinistra (2009-2013) e successivamente cancellati dalla destra”.
Dalla Costituzione in crowdsourcing ai Panama Papers.
Ci fu un tentativo di creare una nuova costituzione del paese che, cambiando la vecchia costituzione risalente alla indipendenza dalla Danimarca, eliminasse alla radice il problema dello strapotere dei banchieri internazionali e del denaro virtuale.
“La bozza costituzionale prodotta con questo procedimento fu approvata come base per la nuova costituzione dai due terzi dei votanti in un referendum dell’ottobre 2012, non vincolante per il Parlamento, dove fu infatti bloccata la successiva primavera”.
La novità in assoluto fu che chiunque avesse la maggiore età poteva seguire le riunioni, il processo di elaborazione e fare le proprie proposte in internet. La Costituzione venne conosciuta anche come la “costituzione in crowdsourcing”.
Non son tutte rose e fiori… ma l’assertiva affermazione del diritto della volontà popolare di mettere bocca su qualsiasi accordo o pretesa internazionale ne esce assai confortato.
Purtroppo la nuova costituzione si fermò in Parlamento per vizi di forma. E le nuove elezioni successive del 2013-14 che riportarono la destra al governo fermarono qualsiasi velleitaria nuova costituzione, fino allo scandalo dei Panama Papers che ha colpito il primo ministro di allora, Sigmundur Davíð Gunnlaugsson.
Le politiche e gli impegni che sembravano fuori luogo nella nuova “immagine” del paese sono state tenute lontane dalla luce dei riflettori riservata alle buone notizie e alle cascate, ai geyser.
Finché nel 2016 il primo ministro Sigmundur Davíð Gunnlaugsson si dimise dopo che il suo nome era comparso nei documenti dei Panama Papers come gestore del patrimonio della moglie, attraverso una società registrata dallo studio legale panamense Mossack Fonseca, nel paradiso fiscale delle Isole Vergini Britanniche… società offshore che si scoprì essere uno dei famosi creditori delle banche islandesi. In sostanza Gunnlaugsson aveva un piede in due staffe.
Attuale situazione islandese.
Lancet dà l’Islanda come il luogo più vivibile sulla terra, ma si potrebbe dire che l’organismo Promote Iceland continui a funzionare alla grande nel costruire in progress il marchio Islanda.
Ciò si potrebbe affermare con certezza se si riuscisse a chiudere un occhio sulle vicende politiche dell’ultimo governo, in cui la destra è riuscita soltanto al terzo tentativo a costruire un governo a tre con una maggioranza risicata-
È certo e si può dire che l’Islanda affascini per la capacità reattiva degli islandesi.
Eh, sì perché tra l’improbabile partito dei Pirati (democrazia liquida, liberalizzazione del porno e referendum sull’ingresso nell’Unione Europea), all’opposizione e lo scandalo dei Panama Papers che rischia di travolgere anche l’ex ministro delle finanze e attuale primo ministro della presente coalizione di governo, il conservatore Bjarni Benediktsson del Partito dell’Indipendenza, c’è poco da rallegrarsi.
Chi ha pagato il debito?
La risposta è stata fornita nel 2013, quando l’Islanda ha vinto la contumelia davanti alla Corte dell’Efta (Associazione europea di libero scambio), cui aderisce insieme ad altri Paesi non Ue come Norvegia, Svizzera a Liechtenstein.
Non dovrà risarcire i paesi, Olanda e Inghilterra, che l’avevano chiamata in causa per farsi rifondere degli esborsi verso i propri cittadini depositanti IceSave.
A pagare… solo i paesi rispettivi… perché dice la Corte: “La Direttiva Ue sulla garanzia dei depositi non prevede l’obbligo per un Paese e le sue autorità di assicurare la compensazione se il sistema stesso di garanzie sui depositi non è in grado di ottemperare ai propri obblighi in caso di una crisi di sistema”.
Quindi il governo islandese era sulla corretta interpretazione quando diceva di non poter essere responsabile, di non poter pagare le conseguenze di un crac bancario come quello del 2008 mentre la crisi finanziaria sbarcava ufficialmente in Europa.
Il governo del paese aveva già provveduto a rimborsare, grazie al recupero della sua economia e al riassetto del suo sistema creditizio, la cifra minima (20mila euro a testa) prevista sulla base delle regole interne sui depositi stranieri.
E sempre secondo l’Efta non c’è stata:
- alcuna violazione della legislazione europea quando l’Islanda ha deciso di non risarcire gli investitori stranieri della IceSave, dipendente da una delle banche fallite nel 2008.
- Alcuna discriminazione rimborsando gli azionisti del proprio Paese.
In sintesi, Olanda e Regno Unito chiedevano l’indennizzo dei propri depositanti secondo la nuova direttiva comunitaria di assicurazione dei depositi, entrata in vigore solo nel 2009 e che prevede, in caso di default di una banca, che i depositanti vengano indennizzati fino all’importo massimo di 100.000 euro.
La corte dell’EFTA ha stabilito, per contro, che la copertura dei depositi per i depositanti IceSave olandesi e britannici dovesse essere quella (inferiore) vigente nei due paesi al momento del crack, ritenendo non applicabile la soglia massima dei 100.000 euro, che avrebbe causato un devastante impatto sui conti pubblici islandesi.
Io, un viaggio di perlustrazione, lo farei.
Quello che regge è il turismo con punte, nel 2016, di 2ml di turisti, che ha surclassato la pesca.
Guardiamo poi ai progetti ambiziosi nella capitale islandese che, data la sua posizione geografica, guardano al 2040 per farne la prima città al mondo senza carbone, carbon neutral, affermandosi come un modello urbano di resilienza climatica.
La lunga esperienza di riscaldamento geotermico ad emissioni zero la rende già pronta per la prossima sfida.
Si tratterà ora di adeguare l’anello debole della filiera ecologica, il trasporto urbano, perché pare che gli islandesi abbiano lo stesso vizio italiano, quello di prendere l’auto per qualunque cosa e parcheggiare lì, dove devono scendere.
Un altro elemento interessante e anche questo opposto alla nostra poca virtù italiana? Leggono, sì, leggono e scrivono, gli islandesi.
Sono un popolo di storyteller, i lunghi mesi freddi coniugati alla tradizione delle saghe ne hanno fatto l’hobby più in voga.
È dalla superba natura e clima che nasce la Terra di mezzo di J.R.R. Tolkien che capitò nella valle di Thórsmörk, un meraviglioso paesaggio artico con tre giganti di ghiaccio.
La tradizione di regalare un libro a Natale è un’abitudine che si portano dagli anni Quaranta, quando si era più poveri e l’unica cosa che si poteva regalare erano i libri. L’altra tradizione è smettere di leggere perché nella capitale spengono l’illuminazione pubblica, d’inverno, per meglio osservare l’aurora boreale.
fonti
Interessanti conclusioni da blog keynesiano
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