Roma: in primo piano l’emergenza abitativa e le ultime tensioni con i migranti
Roma. L’ennesima giornata assolata, calda e umida. Da quattro mesi una città nella morsa del caldo, della siccità e di uno strisciante declino politico e sociale.
Mentre procedo in auto nella trafficata via di Castro Pretorio – prima di un fumo inaspettato – incontro, per la prima volta, un “netturbino migrante”. In attesa del carroattrezzi, il ragazzo si offre di spingere l’automobile verso il ciglio della strada. Prevale allora il desiderio di porgli qualche domanda. Non mi dice il suo nome, ma soltanto di essere originario del Niger. Da un anno vive in Italia con un suo amico. Come lui, tanti altri ragazzi migranti a Roma, hanno iniziato ad improvvisarsi “netturbini”, raccogliendo fogliame, plastica, carta e sigarette e, ogni altra sorta di rifiuto abbandonato sui marciapiedi o sulle strade. Molti di questi si aggirano tra i quartieri San Lorenzo e Tiburtino, armati di scopa, guanti, grandi sacchi neri e un contenitore di latta, nel tentativo di ripulire i marciapiedi e, allo stesso tempo, rendersi socialmente utili. Dimostrare ai passanti distratti che vogliono integrarsi, vogliono un lavoro, una dignità. Lo scrivono su vecchi ritagli di cartone, mentre si cimentano come “netturbini” e sperano in qualche “offerta”. Naturalmente, non raccolgono i rifiuti differenziandoli. Il risultato, grandi sacchi neri, lasciati sui cigli delle strade e mai raccolti, molto spesso, saccheggiati dai senza fissa dimora.
L’inizio delle ferie estive. Si aggrava il noto assenteismo dei netturbini dell’A.M. A tra le strade, non solo, dei quartieri San Lorenzo e Tiburtino, ma dell’intera Capitale. E ci si può, forse, rendere facilmente conto della reale situazione nelle grandi città, come Roma, quando si affrontano temi delicati, quali l’accoglienza, l’integrazione e l’inclusione sociale di fronte all’imponente fenomeno migratorio degli ultimi anni. Nessuna progettualità, nessun intervento e, ad appesantire il clima, si aggiungono i violenti scontri, avvenuti lo scorso 24 agosto, non lontano dalla stazione Termini, dopo lo sgombero del palazzo di via Curtatone, dal 2013 occupato da eritrei e etiopi richiedenti asilo. Ora senza una casa.
L’amministrazione Raggi ha improvvisamente sentito il dovere di procedere agli sgomberi delle case occupate. Perché non iniziare da quelle in cui vivono i migranti? Perché non farlo senza aver messo prima a punto un piano casa? Altri poveri si riversano nelle strade della Capitale. Lasciate sole, prive di assistenza o garanzie. Almeno non nell’immediato. Non finché saranno sbloccati i fondi per il piano abitativo e l’amministrazione capitolina uscirà dal perenne caos, in cui versa dall’insediamento di Virginia Raggi.
Tralasciando le sciatte polemiche di destra o sinistra sullo sgombero, nessuno guarda in faccia la realtà. L’Italia non ha un vero programma di accoglienza o integrazione dei migranti. Le amministrazioni sono veri e propri “cani sciolti” e in un clima di pre-campagna elettorale, ci si preoccupa di polemizzare, di attaccare quel ministro o quel politico.
In un angolo di mondo “civilizzato”, il degrado e l’emarginazione sociale sono gravi segnali di una povertà sempre più diffusa e di una crisi di valori. Non a caso, sono frequenti gli episodi di intolleranza e razzismo – protagonisti spesso minorenni delle periferie romane – l’ultimo al Tiburtino III. E, ancora una volta, sono presi di mira i migranti. I residenti delle zone periferiche di Roma non esitano a denunciare il loro malessere per la presenza degli stranieri o, senza vergogna, la volontà di cacciarli, presto o tardi, se si continua a dare loro “accoglienza”.
Il mio pensiero va ai ragazzi migranti che sono costretti ad improvvisarsi “netturbini”, agli etiopi e agli eritrei che sono stati sgomberati a via Curtatone, agli stranieri che girano per le strade della Capitale, contribuendo anche alla criminalità e ad episodi di violenza. Ma è un pensiero pieno di compassione. Esso assume una veste diversa, quando penso al popolo italiano, la cui maggioranza oramai si lascia andare alle derive populiste e al razzismo. È un pensiero pieno di amarezza e vergogna. Penso allora agli italiani – numerosi – che vivono in strada, condividendo magari un giaciglio di fortuna con un “nero” o un “magrebino” o un “arabo” e la sorte di emarginazione e povertà che, in verità, non conosce differenza di razza. E ciò dovrebbe semplicemente far riflettere e aprire gli occhi sulle torbide acque verso cui si sta spingendo la società. Una società, la nostra, solo di “presunti civilizzati”.