Sconfiggere la realtà distopica tramite un ripensamento utopico. Riflessioni random.
Aprendo un qualsiasi quotidiano o forse anche peggio, sintonizzandosi su un qualsivoglia telegiornale, il mondo sembra palesarsi come un posto davvero distorto, tra violenze di diversa natura, in particolare a danno delle donne, terribili stupri, infanticidi, violenze domestiche, persone costrette ad emigrare da fame e povertà, un uomo come Trump al potere… direi che dopo questa premessa, soprattutto dopo aver ricordato che Donald è realmente a capo degli Stati Uniti d’America, i poveri malcapitati lettori abbiano a ragione dismesso la lettura. Ma posso confortarvi già da ora, l’articolo vorrei terminasse con un flebile grido di speranza.
Dicevamo, sembrerebbe, stando alle cronache quotidiane, essersi realizzato quel presagio apocalittico preconizzato da un certo filone letterario che ha visto tra i protagonisti assoluti personalità come Orwell, Ray Bradbury e, forse il meno conosciuto Aldous Huxley, la cui opera maggiore, “Il Mondo Nuovo”, non ha riscosso lo stesso plauso di altri romanzi del genere, come ad esempio 1984 o Fahrenheit 451. Eppure da questo romanzo un po’ dimenticato vorrei partire.
Huxley, con la sua opera, inaugurava il filone della letteratura cosiddetta “distopica”. Per distopia, termine coniato già dal filosofo John Stuart Mill, si intende la rappresentazione di una realtà immaginaria in cui, al contrario dell’utopia, tutto va male.
E fin qui già sembra essere molto moderna come idea. L’autore inglese immaginava una società del 2540, in cui gli uomini sono, ormai, del tutto condizionati dalla tecnologia in ogni aspetto della propria vita. Rileggere questo romanzo con gli occhi di un lettore della nostra epoca non può che correre un brivido lungo la schiena. Basta alzare lo sguardo in un qualsiasi mezzo pubblico, sovente mi capita di farlo, e constatare che su dieci persone nove avranno lo sguardo incollato al cellulare (l’uno superstite l’avrà scarico e senza caricatore portatile) e in questo triste bilancio mi ci includo con vergogna. Non solo. Huxley restituisce una civiltà rigidamente divisa in classi, in cui la scala mobile sociale è del tutto interrotta. Anche qui la portata profetica è piuttosto corposa, se si riflette sulla concentrazione della ricchezza in mano ad una percentuale ridottissima di persone. Ma lo scrittore anglosassone è stato, per me, un grande preconizzatore soprattutto nel raffigurare una società in cui è messa al bando la tristezza, ricorrendo gli abitanti ad una medicina chiamata “somo” produttiva di euforia, che somiglia molto ad un moderno antidepressivo.
Dunque, ricapitolando, una società in cui la tecnologia ha annientato ogni forma di contatto umano, strumentalizzata al solo scopo di omologare ed omogeneizzare gli individui, classificandoli in rigide caste e bandendo ogni forma di disappunto, sentimento negativo o necessità di contestazione.
Sembra, in effetti, un po’ la nostra martoriata società. È innegabile che l’utilizzo compulsivo della tecnologia abbia pian piano minato le nostre capacità di interazione con gli altri e soprattutto la nostra capacità di empatizzare con le vicende altrui. Tutto è diventato un po’ più freddo, un po’ più asettico, ci interessano solo le cose che ci vedono direttamente coinvolti, e come potrebbe essere il contrario se tutto è schermato da un cellulare o udito solo tramite il giornalista interessato al suo scoop? Detto questo, per chi ha continuato stoico la lettura, il “depressometro” sarà ormai giunto a livelli altissimi. Eppure se una speranza c’è per questo mondo, andrà ricercata nella dominazione della tecnica attraverso tutte quelle discipline che tecniche non sono: la letteratura, il pensiero filosofico, le belle arti. Anche il ripensamento dell’urbanizzazione avrà un ruolo se si saprà tornare a conciliare il bello con l’utile e non limitarsi a tirar su grigi palazzoni e colate di cemento, al solo fine di portare a termine appalti di dubbia liceità. Solo un nuovo processo di ripensamento culturale potrà emanciparci da questa ondata di bestialità che sembra a tratti sommergerci.
La cultura è necessaria in tutti gli aspetti del quotidiano e delle relazioni, aumenta l’empatia verso il prossimo e soprattutto è fondamentale in chi detiene il potere. Il potere senza cultura diviene mera soggiogazione, genera distorsioni come il “caso Weinstein”. E’ un mondo hobbesiano, in cui homo homini lupus, in cui la preservazione della specie e la costruzione del futuro, scompaiono di fronte all’unico dio valevole per tutti: l’Io. E di questo processo di cambiamento dovremmo sentirci tutti protagonisti, trasponendolo nel nostro quotidiano, nel ragionamento d’insieme, nel ripensare al trasporre dei valori comuni nelle nostre vite e tutto questo può partire da qualsiasi cosa, anche dall’astenersi da un commento superficiale e non ragionato, dal pensiero critico, dal lasciare il posto in autobus, dal rispettare la fila. Dal riscoprire il valore di grazie e prego e permesso. Dalla gentilezza e dall’attenzione. Forse, la moderna deriva distopica, potrà essere sconfitta dell’utopia dell’uomo che si fa umano.
Annarita Lardaro