“Zio Vanja”, regia Leonardo Lidi, al Teatro Vascello: la recensione
1890. “Zio Vanja”, un dramma che dal 9 al 14 aprile si è trasformato nell’odierna commedia della vita sullo sfondo del Teatro Vascello di Roma.
Una reinterpretazione del capolavoro di Čechov, l’essenza più pura: “nella vita non si spara, non ci si impicca, non si dichiara il proprio amore e non si enunciano pensieri profondi tutti i giorni e a getto continuo”.
Sotto la regia di Leonardo Lidi la pièce non ha bisogno di elementi sensazionalistici, bastano le intonazioni, le esclamazioni ma soprattutto le frasi che ritmano i silenzi.
“In tutti voi c’è smania di distruzione” risuona sul palco, una voce assertiva è quella della bella Elena (Ilaria Falini), seconda moglie del Professor Serebrjakov (Maurizio Cardillo). È lei, la giovanissima femme fatale annoiata, principale causa del turbamento familiare, tra le incomprensioni con la figlia di primo letto del professore, Sonja (Giuliana Vigogna) bruttina ma idealista, i multipli corteggiamenti di Zio Vanja (Massimiliano Speziani), ammiccante senza speranze, e Astrov (Masio Pirrello), il medico dallo spirito ribelle.
C’è una perenne consuetudine nelle giornate della famiglia, interrotte da delusioni e accompagnate da sprazzi di idealismo. Lo spettacolo della Compagnia del Teatro Stabile dell’Umbria racconta le trasformazioni sociali e il rapporto uomo. Lo scrittore ha colpito il pubblico per la sua modernità, già nel 1897, denunciando la distruzione ambientale causata dal progresso. È così che rileggendo un classico nascono personaggi consueti ma emblematici, l’ecologista profetico Astrov ne è un esempio: un medico idealista, un personaggio outsider, a momenti distruttivo nel suo continuo bere. Un personaggio rivoluzionario accompagnato alla polarità opposta del nullismo.
“Inutile lavorare, inutile impegnarsi, inutile studiare” dice lo Zio Vanja. Assuefatto dalla realtà, Telegin (Giordano Agrusta), nella sua alienazione affettuosa, osserva una madre decisionale, interpretata da Angela Malfitano. Marina (Francesca Mazza), con i suoi incantamenti e la lucida flemma dell’esperienza, il guardiano di Tino Rossi con la sua presenza attenta.
Un racconto in cui il pubblico appare coinvolto dai temi comuni a ogni essere umano oltre ogni epoca storica, sullo sfondo pesante di un tavolo in legno di betulla sulla quinta del teatro: “l’oppressione del tempo e l’uomo che si autolimita”.
Non c’è via di fuga per nessuno, nemmeno per chi osserva che meglio gli inflessibili ragionamenti, a partire da quelli di zio Vanja, il primo ad avere preso lucida coscienza della catastrofe umana che lo circonda.