“Attenberg” di Athina Rachel Tsangari: la recensione
“C’è più significato e comprensione reciproca in uno scambio di sguardo con un gorilla che con qualsiasi altro animale che conosco. E quindi, se mai ci fosse la possibilità di sfuggire dalla condizione umana e vivere con la fantasia nel mondo di un’altra specie, penso che dovrebbe essere tra i gorilla.” SIR DAVID ATTENBOROUGH
Al cinema dal 13 giugno, distribuito da Trent Film, “Attenberg” di Athina Rachel Tsangari.
Presentato al Festival di Venezia 67, dove la protagonista Ariane Labed ha vinto la Coppa Volpi, il film vede nel cast, nell’unica interpretazione della sua carriera, anche l’acclamato regista Yorgos Lanthimos.
“Attenberg” è un racconto di formazione su una giovane donna, Marina, che indaga gli esseri umani e l’esistenza come fossero i protagonisti di un documentario.
Marina (Ariane Labed) vive su una tranquilla città industriale greca in riva al mare. Trovando la specie umana repellente la tiene lontana da sè, mantenendo i rapporti solo con il padre Spyros (Vangelis Mourikis) e l’amica Bella (Evangelia Randou). Quest’ultima appare più aperta ai rapporti sociali ed amorosi ed è con lei che la protagonista “prova” il suo primo bacio e apprende i rudimenti del sesso.
La storia di Marina cambia quando in città arriva un ingegnere (Yorgos Lanthimos): da una sfida a biliardino nasce una relazione fatta di sesso e apprendimento. La giovane “studia” l’altro, gli pone domande e nel frattempo affronta la malattia del genitore e l’iter per la cremazione del padre.
Il padre considera sopravvalutato il XX secolo che sta arrivando e sembra accorgersi, sul finire della sua vita, di lasciare in balia del mondo una figlia non preparata al futuro.
L’opera riflette la crisi identità tra il passato di cui il padre è protagonista e il futuro che sta sopraggiungendo che negli occhi di Marina è un dilemma, un posto da trovare in un mondo in forte trasformazione.
“Sto boicottando il XX secolo. È sopravvalutato e non mi dispiace per niente lasciarlo. Sono un vecchio uomo ateo. Un residuo tossico del modernismo, del post-Illuminismo, e ti lascio nelle mani del nuovo secolo senza averti insegnato nulla.”
“Attenberg” è un’opera sperimentale: il sesso, le relazioni, la morte sono affrontati quasi allo stato brado, senza alcun tipo di tabù, come quando Marina chiede al padre se l’abbia mai immaginata nuda, cosa che lei ha fatto.
Marina è una giovane inerme di fronte al secolo che sta arrivando, una donna che deve ancora conoscersi e conoscere. La morte del padre è inevitabile per crescere eppure c’è da chiedersi quale sarà la sua storia, come riuscirà a relazionarsi al mondo e ai suoi cambiamenti perenni.
Lo stile narrativo utilizzato dalla regista si caratterizza per le inquadrature statiche, i colori desaturati e un ritmo narrativo lento, a tratti fermo, che sembra metafora della percezioni vissute dalla protagonista. I lunghi silenzi e i dialoghi scarni, infatti, amplificano il senso di solitudine e isolamento dei personaggi che appaiono archetipi piuttosto che esseri umani in carne ed ossa: questo affascina e terrorizza perchè c’è da chiedersi se non siamo noi tutti “maschere” di una società non in grado di rappresentarci.