The violence in full immersion. Cos’è la violenza e perche continua ad essere
Per parlare di “violenza”, tout court, comincerò dalla “strada”, come palcoscenico delle scene della nostra ordinaria follia quotidiana…
… Perché la Strada non è un luogo muto, ma di relazione, è la misura della permanenza di un tessuto umano nella comunità.
E’ una rete di relazioni che hanno come unici attori le persone, le più diverse.
Violenza oggi. Cominciamo dalla “strada”.
Per parlare di violenza, tout court, comincerò dalla “strada”, come palcoscenico delle scene della nostra ordinaria follia quotidiana…
… Perché la Strada non è un luogo muto, ma di relazione, è la misura della permanenza di un tessuto umano nella comunità.
E’ una rete di relazioni che hanno come unici attori le persone, le più diverse.
Per distinguersi gli Uni dagli Altri, il discrimine è l’appartenenza ad un gruppo, ad una comunità, ad uno Stato-nazione. Di contro, la non-appartenenza individua gli Altri, come lo Straniero.
Dov’è il punto di crisi di un modello di contrapposizioni così rigido?
Dove, il rispetto, la capacità di ascolto e di risposta sensibile, si infrangono, all’interno di una stessa comunità, costituita, per definizione conseguente, da tanti Uno Uguali?
Che gusto c’è ad autoproclamarsi vincitori gli Uni sugli Uni?
Forse la categoria etico-politica scheleriana del risentimento può fornire una chiave di lettura di questa mancanza di friendly, di questa pervasiva aggressività violenta, che suona come l’imperativo categorico nei rapporti interindividuali e sociali.Facciamo un passo indietro. Se l’uguaglianza di tutti ha prodotto un livellamento sociale, una sorta di uniformità, ne consegue che il valore della propria individualità viene desunto sulla base del confronto e della imitazione.
Aggiungiamo subito che a tanta uguaglianza non ha corrisposto una pari crescita del sentimento di libertà.Ora, il confronto e l’imitazione sono strumenti positivi, quando vengono agiti tra individui autonomi, poiché tendono a costruire una relazione reale, tra soggetti con pari dignità.
Ma quando questi strumenti di valutazione vengono usati da un Io che considera l’Altro come un Altro me, riducendolo ad un Medesimo che può essere di più o di meno, che può avere di più o di meno, allora il confronto e l’imitazione producono duplicazione egoistica, onnipotenza che schiaccia, invidia e risentimento.
L’essere del risentimento.
Chiediamoci ancora. Come scattano risentimento ed invidia verso chi presumiamo abbia ciò che noi desideriamo?
Nell’uguaglianza, ogni aspirazione personale sembra essere legittimata a concretizzarsi e, parimenti, ogni ostacolo frapposto può essere vissuto, da alcuni, come un fallimento personale. Il derivante senso di impotenza tende a distruggere l’Io che può difendersi, agendo il sentimento dell’invidia.
“L’essere del risentimento” svaluta verbalmente ciò cui aspira; così scarica la tensione tra aspirazione e impotenza fino al punto in cui la detrazione (Sei meno di me!) non è più solo fittizia, ma diventa un principio del proprio sistema di valori.
E così la catena della detrazione si propaga: dalla strada al quartiere, dal quartiere alla periferia, dalla periferia al centro, dal centro alla città, dalla città alla provincia, dalla provincia alla regione… all’insieme delle regioni, da queste alla nazione, dalla nazione all’Europa, dall’Europa agli altri mondi.
Come vedete, aveva senso cominciare dalla Strada!Che fare di fronte alla violenza?
Il comune sentimento serpeggiante di fronte alla violenza urbana è il disagio, l’assuefazione.
La violenza è una cesura del senso dell’abitare, inteso come custodire e coltivare la vita nel rapporto.
Tutti siamo disponibili a considerarla iniqua, ma accusiamo ugualmente il disagio come di qualcosa che non dà scampo, come se si fosse assediati senza conoscerne la ragione e senza, per quanti sforzi si facciano, trovarne una valida.
Alla lunga il disagio senza via d’uscita, non potendo essere tollerato in eterno, porta ad assumere la violenza come una specificità necessaria, una normalità, per quanto patologica, dei nostri tempi.
Più è vicino il rischio di coinvolgimento nel fatto violento, più l’individuo ne prende le distanze.
Così si articola un processo di “riconciliazione”, una sorta di “giustificare e/o perdonare” acritico, che nulla comprende degli accadimenti ultimi come concatenati ad altri già avvenuti, lasciando spazio ad un cinico permettere che si ripetano, purché questo serva ad allontanarli da sé.
Cos’è, dunque, la violenza?
È “un’attività contro”…
… armata di disprezzo, immediata, discontinua salvo a rinascere diversa, in una diversa situazione, sproporzionata allo scopo, imprevedibile nel “suo compiersi”.
Sono queste le peculiarità dell’atto violento del singolo e/o del gruppo, indotte da una sorta di “contagio affettivo” spersonalizzante, che induce l’aggregazione della folla sulla spinta emotiva, provocata da un evento o da una persona.
Tale spinta riduce i singoli o la folla ad oggetti senza identità, manipolabili da chi esercita la spinta stessa.
Si innesca così un meccanismo per cui ci si appropria della violenza subita e, a catena, la si scarica su altri, in una spirale crescente.
Oppure la controreazione altrettanto violenta?
Sembra paradossale, ma ad ogni processo di crescita della consapevolezza corrisponde una recrudescenza della violenza che colpisce alcuni “oggetti” preferenziali: le etnie di minoranza e, all’interno di queste, le donne, i bambini/e, i diversi per razza, colore della pelle, gli/le omosessuali.
La violenza, ieri, sembrava opporre Ragione contro Follia.
Ma quante volte la Ragione ha fornito motivazioni di giusta causa ai grandi conflitti mondiali che sono state grosse manifestazioni violente?!
Le cose dunque sono più complicate, perché esiste una ragione proteiforme (afferma e nega la follia!?), gridata da ognuno dei fronti di guerra dell’oggi.
Allora ciò sottace una mistificazione. Sarebbe più onesto parlare di una ratio di tipo economicistico, che induce a portare guerra contro chiunque non abbia abbracciato gli stessi interessi (o imbracciato gli stessi fucili!).
In estrema sintesi, le ideologie capitalistiche e/o socialiste hanno fornito la Ragione alle guerre, la cui violenza intrinseca era una follia necessaria perché la guerra era una giusta causa.
Combattuta in zona franca, tra eserciti addestrati ad essa, della violenza di una guerra rimbalzava l’eco in seguito alla morte dei propri congiunti. E anche il dolore veniva addomesticato dalla coscienza di avere dato alla patria un eroe: così l’emozione dolorosa non aveva il tempo di diventare traccia/segnale per approfondire l’iniquità della guerra.
Ed oggi?
Tanti fronti aperti; l’invasione in casa, appena ieri l’altro più lontana, attraverso i media, ora sull’altra sponda del Mediterraneo e non solo.
Ciò stimola la coscienza critica, e questo è un dato confortante.
Ma è vero anche che stimola la coscienza in modo quasi intollerabile.
Appena ieri, con la Bosnia le reazioni erano di indignazione iniziale, cui seguiva uno scudo di indifferenza, per difendersi.
La controreazione, che è l’altra faccia del disagio, se ne diversifica soltanto perché è di segno opposto all’assuefazione.Le ronde di quartiere, l’acquisto di un’arma per difesa, i pestaggi del borseggiatore, o di chi è diverso, non sono di certo modalità meno allarmanti e violente.
Sono infatti comportamenti veicolati sull’onda della medesima spinta spersonalizzante, come le manifestazioni di protesta mirate soltanto allo scontro, che, pur inneggianti gravissimi moniti contro la guerra, nel solo richiudersi su di essi senza alcuna prefigurazione di dialogo, rischiano di fare il gioco di chi sulla guerra e sulla violenza continua a farci i suoi sporchi traffici.
Fonti
Riflessioni sull’onda di “Massa e potere” di Elias Canetti e “Il risentimento nella edificazione delle morali” di Max Scheler
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