George Floyd: ammettilo, l'”uomo nero” ti fa ancora paura!
Il silenzio, il pensiero e l’interrogativo: può il colore della pelle decidere il destino di un uomo? Può la morte divenire sua consorte, a causa del pensiero imperante che lo vuole diverso e quindi ostile?
La tragica morte di George Perry Floyd ha condotto a giorni di riflessione e di gesti, sfociati spesso nella violenza. La violenza appare l’unico strumento per chi ha smesso di credere nella giustizia e sente che per affermare la propria identità è necessario gridare a gran voce il disagio e il dolore, utilizzando anche il conduttore della brutalità.
Il 25 maggio 2020 a Minneapolis, in un’America ancorata al razzismo e alle idee di supremazia del passato, è avvenuto l’ennesimo e terribile caso di razzismo, sfociato nella morte di un giovane uomo.
La Terra e la sua popolazione è parsa scossa e persa dall’episodio, difronte ad un mondo dominato da uomini in cui l’idea di giustizia sociale è a loro estranea. Ancora di più ha sconvolto gli animi la visione del filmato di George Floyd riverso a terra, con il ginocchio del poliziotto “bianco” Derek Chauvin a premergli sul collo per 8 minuti e 46 secondi, mentre la vittima inconsapevole dell’odio umano implorava sollievo.
George Floyd aveva solo 46 anni, era padre di due figli di 22 e 6 anni. Derek è un uomo di 44 anni, ufficiale del dipartimento di polizia di Minneapolis con 18 denunce a sua carico.
Due uomini e due destini in cui il colore della pelle è l’elemento predominante, capace di afferrare le sorti delle loro esistenze.
Può un colore decidere un destino? Può un colore sovvertire una vita? Può un colore condurre ad una morte?
In questi giorni le manifestazioni pacifiche e non hanno creato un “cerchio” di solidarietà ed attenzione intorno al problema mai risolto del razzismo. Un razzismo che trascende le esistenze di ognuno di noi.
Serve la morte a ricordarci di quanto il colore della pelle influenzi ancora le nostre vite?
Ammettilo uomo: “l’uomo nero”, utilizzato per spaventare i bambini, quanto ancora ti suscita timore e ansia in una stazione deserta della metro? Su un autobus di periferia? Accanto al tuo posto in una sala d’attesa?
Non basta manifestare, è un dovere e un diritto necessario di sicuro, ma è ancora più fondamentale cambiare la mentalità imperante nostra e dei nostri vicini per comprendere che la diversità è un valore, non da annullare, ma da declamare.
Solo negli Stati Uniti, secondo il Southern Poverty Law Center, esistono 940 gruppi che inneggiano all’odio razziale.
L’organizzazione di patrocinio legale senza fini di lucro definisce un gruppo di odio, un “hate groups”, come “un’organizzazione che sulla base delle sue dichiarazioni o principi ufficiali, delle dichiarazioni dei suoi leader o delle sue attività ha credenze o pratiche che attaccano o diffamano un’intera classe di persone, in genere per la loro caratteristica immutabile. “
Le attività di questi gruppi possono includere atti criminali, manifestazioni, riunioni e pubblicazioni.
Al 2018 l’SPLC elencava 1.020 di tali gruppi, un massimo storico alimentato da un aumento dei gruppi di destra radicale. Oggi sul sito web i numeri parlano di oltre 1600 gruppi in osservazione.
I gruppi principali includono quelli affiliati al Ku Klux Klan, ai nazionalisti bianchi, al movimento neonazista e alle milizie antigovernative.
Quanto ancora la mano di un uomo sarà conduttore di morte e quanto il tempo scandirà la violenza e il dolore di cui siamo portatori “volenti”?
Immagine: Foto di Patrick Behn da Pixabay