Intervista alla regista Stefania Porrino: “in Esculapio al neon getto un ponte tra il mio passato e il presente”
Al Teatro di Documenti, il 29 giugno, è andata in scena “Esculapio al neon”, opera di Ennio Porrino, riproposta dalla figlia Stefania Porrino.
Una storia di famiglia, i costumi originali sono di Màlgari Onnis, madre della regista, in cui scoprire l’amore per l’arte, una narrazione attuale, la contrapposizione tra medicina e rimedi naturali, e l’ambizione degli interpreti, gli allievi del Conservatorio di musica “Licinio Refice” di Frosinone dove la Porrino insegna.
In attesa della seconda serata, il 2 luglio, abbiamo intervista Stefania Porrino.
- Buongiorno Stefania. “Esculapio al neon” è una storia di famiglia, quasi un cerchio perfetto che completa una narrazione in tempi diversi. Ci racconti la genesi dell’opera, da quando l’ha composta tuo padre ad oggi?
“Esculapio al neon” nasce nel 1958 dall’incontro tra mio padre, il compositore Ennio Porrino, e Luciano Folgore, noto poeta futurista, fine umorista e autore di libri per bambini. Per mio padre, autore di musica sinfonica, da camera e operistica, fu l’occasione di scrivere per la prima volta un’opera comica. Purtroppo nessuno dei due autori poté assistere alla messa in scena del loro lavoro perché quando andò in scena per la prima volta, al Teatro Massimo di Cagliari, nel 1972, entrambi non erano più in vita. In quell’occasione però la regista Marcella Govoni chiese a mia madre, Màlgari Onnis, di firmare le scene e i costumi che, molti anni dopo, io ho acquistato dalla Casa d’Arte Jolanda (che li aveva realizzati) e che ora ritornano in scena al Teatro di Documenti con la mia regia.
- Cosa ti ha spinto a riportare l’opera sulla scena? Cosa ti ha fatto dire “è questo il momento”?
Allestire oggi un’opera di autore moderno non è impresa facile. Io ho questa possibilità perché insegno Arte Scenica al Conservatorio e quindi posso contare sulla partecipazione degli allievi di Canto che frequentano i miei corsi. E infatti già nel 2010 ho messo in scena quest’opera al Teatro Ghione in occasione del centenario di mio padre. Ma non sempre le voci degli allievi sono adatte al suo repertorio, piuttosto impegnativo. Quest’anno c’erano gli elementi adatti a ricoprire tutti i ruoli dell’opera, tanto che ho potuto formare due cast che si esibiranno per una replica ciascuno. E poi adesso mi sto avvicinando alla fine della mia carriera di docente e quindi ho voluto regalarmi la gioia di poter far rivivere ancora per una volta quest’opera che amo tanto e che ho imparato a memoria sin da bambina quando mia madre ne ascoltava la registrazione e quando mi portava con sé alle prove in teatro.
- Gli interpreti indossano i costumi originali creati da tua madre Màlgari Onnis per la messinscena nel 1972. Cosa si prova a toccare con mano quella stoffa?
È davvero un’emozione tutta particolare. Di ognuno di quei costumi ricordo l’interprete che li ha indossati: Lucia Cappellino nel ruolo di Cordelia, Carlo Bini nel ruolo del principe Rovello ma soprattutto ero rimasta colpita dall’energia prorompente della famosa Fedora Barbieri nel ruolo di Comare Anfissa, la fattucchiera che vuole curare con le erbe il male d’amore della figlia Cordelia e le innumerevoli malattie del povero principe Rovello, aspirante genero. Rivedere oggi quei costumi indossati dai miei allievi è come gettare un ponte tra il mio passato e il presente e mi dà il senso di una continuità artistica oltreché affettiva della mia famiglia.
- Sei cresciuta respirando arte: qual è il tuo primo ricordo “artistico” da bambina?
Pochi giorni prima che mio padre morisse (il 25 settembre del 1959 quando io avevo due anni e mezzo) eravamo al Teatro La Fenice di Venezia, in occasione del Festival Internazionale di Musica, dove andò in scena una “azione coreografica e mimica” di mio padre dal titolo “La bambola malata”, a me dedicata. Il soggetto era di Luciano Folgore con il quale continuava la collaborazione artistica iniziata con “Esculapio al neon”. Io ricordo perfettamente lo sforzo con il quale guardavo il palcoscenico su cui facevo fatica – per un notevole difetto di astigmatismo non ancora scoperto dai medici – a distinguere i particolari di quanto accadeva in scena e che mia madre mi descriveva per aiutarmi a seguire lo spettacolo. Quella è stata la prima e purtroppo ultima occasione in cui ho assaporato il profumo dell’arte insieme a mio padre e mia madre.
- Il Teatro di Documenti fa spesso da cornice ai tuoi spettacoli: quale credi sia l’”ingrediente segreto” che lo rende così unico per le tue messinscene?
È un teatro fuori dagli schemi, geniale nella sua concezione, come geniale è stato il suo creatore, Luciano Damiani. Uno spazio multiplo che ritengo molto adatto a stimolare la mia fantasia, sia quando metto in scena i miei testi in prosa che quando allestisco opere liriche, per creare sempre soluzioni diverse, sia nel rapporto tra pubblico e interpreti sia nella collocazione dell’azione scenica che si può avvalere addirittura di due sale sovrapposte.
- Non solo regista ma anche docente: la tua arte viene influenzata dal rapporto con gli allievi?
Non in maniera diretta ma indirettamente sì: quando faccio lezione e ancor più quando spiego una regia ai miei allievi il rapporto che ho con loro è simile a quello che un attore ha con il suo pubblico. Bisogna percepire l’interesse che si riesce a suscitare, modificare il proprio ritmo in base a quello di chi ascolta, convincere, trascinare, coinvolgere, si impara a creare empatia… tutte cose necessarie sia a un buon autore che a un buon regista.
- “Esculapio al neon” verrà interpretata, appunto, dagli allievi del Conservatorio di musica “Licinio Refice” di Frosinone dove insegni. A distanza di tanti anni quali sono gli elementi che rendono ancora oggi l’opera attuale?
L’argomento dello spettacolo è la contrapposizione tra la vecchia e la nuova medicina, tra i benefici delle erbe medicinali, esaltati dalla fattucchiera Anfissa, e il potere risolutore di vitamine, ormoni e cortisone, esaltato da Grancassa, la signora della Pubblicità. Il tema quindi, pure dopo tanti decenni da quando è stato scritto il libretto, è quanto mai attuale e ancora non risolto – anche se qui viene proposto in chiave ironica e leggera.
Oggetto del contendere infatti sono Cordelia, fanciulla romantica, e il malatissimo principe Rovello che si sono innamorati per corrispondenza e desiderano ardentemente conoscersi di persona per convolare a giuste nozze. Il problema però è come ridare forza e salute al povero principe e su questo si scatena la lotta tra la vecchia e la nuova medicina che alla fine avrà la meglio.
- Hai già in “cantiere” nuovi progetti?
Sto scrivendo un monologo per Daniela Poggi che mi ha chiesto di affrontare il tragico e purtroppo attualissimo tema del femminicidio in un modo che però non sia solo un racconto di cronaca ma si allarghi a considerazioni esistenziali più ampie che prevedano anche una possibilità di rigenerazione interiore di chi non è in grado di controllare il proprio istinto violento e assassino. Al testo in prosa si alterneranno anche le musiche e le canzoni di Mariella Nava creando un dialogo intrecciato di musica e parole.
Un altro progetto riguarda la “Compagnia del Mutamento”, composta dagli attori Giulio Farnese, Nunzia Greco, Evelina Nazzari, Alessandro Pala Griesche e Carla Kaamini Carretti, con cui ho già messo in scena diversi miei testi: “Comunismo, addio?”, “Il Rondò del Caffè Ristoro” e “Il Mutamento – in viaggio da Atlantide all’Universo”. Mi piace molto poter scrivere sapendo già quali saranno gli interpreti del mio testo e prendere ispirazione dal loro specifico modo di recitare per creare per loro personaggi “su misura”.
E poi penserò all’allestimento di altre opere con i nuovi allievi del mio Conservatorio da presentare nella prossima stagione. Insomma: avrò poco tempo per riposare…