La musica italiana tra passato, presente e (quale) futuro
«Calcutta e Giorgio Poi Madonna che tristezza» così ironicamente e con umiltà cantano gli stessi Calcutta e Giorgio Poi a proposito della situazione della musica italiana d’oggi. Nel brano intitolato proprio “La musica italiana” i due artisti romani d’adozione cantano di una musica d’autore nostrana riscoperta con nostalgia lontano da casa, che scopriamo mancarci alla stregua del parmigiano, perché leopardianamente «dalla stanza accanto sembra sempre tutto più bello».
Così questo omaggio al cantautorato italiano vuole anche per certi aspetti decretarne la sua fine, lo si può riscoprire ma non lo si può ricreare; ne sono consapevoli gli stessi artisti di questa nuova scena, i quali seppur sembrino godere di un certo interesse sanno che questa musica si alimenta all’interno della cerchia dei loro affiliati, e difficilmente da questa esce. Una cerchia che tra l’altro sembra avere precisi limiti d’età, oltre i quarant’anni difficilmente si conoscono i nomi di questi nuovi cantanti. Una musica che, per capire ancora meglio la situazione del nostro cantautorato, viene etichettata come indie (indipendente) e che vive di numeri lontani da quelli dei soliti artisti pop o da quelli più clamorosi degli ormai sdoganati rapper o trapper.
Sono loro ormai che dominano le classifiche di ogni piattaforma, dalle radio ai siti di musica streaming. I fan più accesi considerano questa stessa musica come la vera erede della musica d’autore, se non addirittura della poesia; i motivi: la scrittura in rima, gli incastri di parole e le figure retoriche. Per certi aspetti questo è anche vero e ci sono molti bravi artisti, tuttavia il paragone rimane ardito. I vari Salmo, Fabri Fibra, Mondo Marcio per citarne alcuni tra i più bravi, sembrano però non avere nei loro testi quella sensibilità poetica che caratterizzava i nostri più grandi autori. Lo stesso vale per la musica, e qui bisogna tornare a guardare alla scena indie, dove si va comunque alla ricerca di nuovi suoni e, lavori di un certo valore sembrano venire fuori, tuttavia anche in questo caso sembra impossibile, per fare un nome su tutti, potersi quantomeno avvicinare a quei suoni eterei di Anima Latina, l’album capolavoro di Mogol e Battisti del 1974.
Non si può dire che la musica italiana viva una crisi, perché mai come ora vi è una cosi svariata offerta di generi e artisti, come diceva il critico letterario Alfonso Berardinelli intervistato per Il Venerdì sullo stato della poesia in Italia «oggi scrivere letteratura non è più un talento, ma è diventato un diritto che non si può negare» e cosi si può dire per il fare musica. La crisi è una crisi esistenziale, perché cosi diversificata sembra essere cambiata per sempre. A noi italiani nostalgici e romantici per natura non può che apparire cambiata in peggio ma come in ogni cosa il giudizio spetterà ai posteri, ai noi di qualche decennio più in là, quando avremmo una visione più completa di quella che è la musica d’oggigiorno e di dove voleva andare.
Ci si può chiedere se questo mutamento valga solo per noi o sia sintomo di una più estesa metamorfosi musicale, e così sembrerebbe. Perché non siamo i soli che sentono la mancanza dei vari Tenco, Dalla, Battisti, De Andrè ecc… ma anche nel panorama internazionale si rimpiangono i grandi di un tempo. Specialmente in un periodo storico così materialistico ed egoista si avverte di più il bisogno di umanità e bellezza che solo certi artisti sapevano regalarci. E forse è proprio qui la spiegazione, poiché se l’arte è espressione della società, siamo stati anche fortunati. D’altronde come cantava Dargen D’Amico «non sarà certo un disco a correggere il mondo (…) se non l’ha cambiato Dalla con Com’è profondo».