“L’ordine apparente delle cose” di Lara Fremder: la recensione
Recensire “L’ordine apparente delle cose” di Lara Fremder non è cosa facile. Il libro, edito da Gabriele Cappelli Editore, pur prestandosi facilmente alla lettura lascia un senso di “non – finito”, di incompiuto e un’insidiosa inquietudine.
Il romanzo segue la guida turistica Rachele Zwillig, a Gerusalemme. La città è la seconda protagonista della storia, una terra tumultuosa, complessa e violenta. Rachele trascina con sé, nelle sue giornate scandite da volti sconosciuti, il fantasma della madre, un fratello misterioso e un padre assente.
Ha 41 anni Rachele, fa la guida turistica e vive da sola. Orfana in una città che pare inghiottirla.
“Da ragazzina mi infilavo volutamente dentro fotografie di sconosciuti. A volte uscivo di casa apposta. Era un gioco di cui solo ora riconosco la malinconia, trovare un modo per esistere nel mondo, essere al tempo stesso visibili agli altri e invisibili a sé stessi.”
Rachele possiede solo cinque fotografie.
La prima la ritrae insieme alla madre Dahlia, cinque giorni prima del suo suicidio. Ha solo quattro anni Rachele.
La seconda non ha né luogo, né tempo. Raffigura una casa con un giardino incolto, una sedia rovesciata fra l’erba alta e una donna davanti alla porta d’ingresso che guarda verso l’obiettivo.
La terza vede Rachele che corre. È l’estate del 1983 e la madre è morta due anni prima.
La quarta è il ritratto della famiglia Zwillig prima della tempesta (così qualcuno ha scritto sulla fotografia). Parigi 1940, una coppia, Oscar Zwillig e la moglie Rina, i nonni di Rachele.
L’ultima è il ritratto della famiglia Zwillig dopo la tempesta. 1946, una bambina sola al centro di una stanza guarda l’obiettivo: è la madre di Rachele e ciò che resta di una famiglia di ebrei ungheresi.
“E penso che la vita e la morte si sfiorano a tal punto che non c’è margine, non c’è spazio per stare solo da una parte. Mai.”
Rachele non prega, beve il suo Gin Tonic durante lo Shabbat, non vuole essere definita ebrea e, per sopravvivere, inventa storie che spaccia come reali non solo alle comitive di turisti ma anche a sé stessa.
“L’ordine apparente delle cose” è un romanzo ostico perché complicato nella sua semplice narrazione: quanto dolore nasconde Rachele? La vita apparentemente ordinaria a cui si “sottopone” le è necessaria per esistere? Potrebbe Rachele essere “presente” in un altro luogo?
L’autrice sceglie appositamente di lasciarci nei margini: anche quando la donna incontra il padre, dopo molti anni, l’Epifania che ci si aspetta non avviene e quando l’incontro con Richard Fichter, un inglese che si affida alla sua guida, ci fa sperare in un cambiamento questo non si manifesta.
“Le famiglie sono un insieme pericoloso, talvolta benefico, talvolta minaccioso, talvolta salvifico, talvolta mortale.”
È un romanzo che fa male “L’ordine apparente delle cose” perché fa diventare cosciente il lettore su come le vite siano spesso interdette all’esistenza stessa.
“Dottoressa Zweiter?
Sono le tre di notte Rachele, cosa c’è?
Perché dovrei essermi inventata la storia di Hulda?
Forse per uscire anche tu dai campi.
Non dica sciocchezze. Io non sono mai stata nei campi.
Sicura?”
Rachele è sicuramente una protagonista scomoda: si muove lenta in una Gerusalemme di violenza e dolore, regalandoci il ritratto di una vita che appare “normale”, abitudinaria e spesso annoiata, ma che racchiude in sé un “ordine solo apparente”.
“Qui è bene perdersi. Perdersi significa non cercare risposte, quindi non fatemi domande se non strettamente necessarie. Non interrompete il vostro smarrimento di fronte ad apparenti certezze. Mantenete il disorientamento, mantenetelo il più possibile perché è questo ciò che ha valore.”