Miti e archetipi: una passeggiata. Seconda parte
L’avvicinamento dell’Europa occidentale al simbolismo è in congiunzione con l’emergere del mondo extraeuropeo “esotico” o “arcaico” all’orizzonte della “storia”.
Sommario
con sosta, meraviglia, sbigottimento di quanto siano lontani eppur vicini a noi. 1
Il simbolismo arcaico, esotico, le comunità altre e l’Europa. 1
La razionalizzazione della coscienza agisce da cesura. 5
Il mito, l’archetipo si declina in un diverso sguardo. 7
con sosta, meraviglia, sbigottimento di quanto siano lontani eppur vicini a noi.
Il simbolismo arcaico, esotico, le comunità altre e l’Europa.
L’avvicinamento dell’Europa occidentale al simbolismo è in congiunzione con l’emergere del mondo extraeuropeo “esotico” o “arcaico” all’orizzonte della “storia”. L’Europa, a costo di chiudersi in un arido provincialismo (doppio sic), non potrà più “pensarsi” come “fattrice unica” della “Storia”, seppure continui a vedersi tale!
I simboli non scompaiono mai dall’attualità psichica. “L’idea di salvezza, nel cristianesimo, non fa che riprendere e completare le nozioni di perpetuo rinnovamento e di rigenerazione cosmica, di fecondità universale e di sacralità di realtà assoluta e, in fin dei conti, di immortalità, tutte nozioni che coesistono nel simbolismo dell’ “Albero del Mondo” (Mircea Eliade, p.145).
Si badi che cercare il filo di continuità di un simbolo, a cavallo di diverse epoche, non significa svalorizzarne il contenuto e svilirne la significatività all’interno di una cultura ben precisa.
Fermarsi però soltanto a “situare” il simbolo all’interno della sua storia, rintracciare ciò che viene rivelato soltanto da una versione particolare di un simbolo, non permetterebbe di comprendere “la totalità di un simbolismo.”
“Ogni nuova messa in valore di un’Immagine archetipa corona e consuma quelle antiche: la salvezza rivelata dalla Croce non annulla i valori pre cristiani dell’Albero del Mondo, al contrario la Croce costituisce il coronamento di tutte le altre valenze e significati” (Mircea Eliade, p.146).
Un altro esempio di continuità e di fattività dell’Archetipo è ravvisabile nel simbolo della discesa agli Inferi. Essa si ritrova nell’operazione sciamanica di riportare indietro l’anima del malato, rapita dai demoni; andando ancora più indietro, nel mito di Orfeo che scende nell’Ade per riportare indietro Euridice; o ancora nei miti polinesiani e centro asiatici e, infine lo ritroviamo nella figura di Cristo che scende sulla Terra (gli Inferi) per restaurare l’integrità dell’uomo decaduto a causa del peccato (Mircea Eliade, p.146/47).
L’operazione di recupero dell’intero simbolismo insito nella “discesa agli Inferi”, rintracciandone i significati parziali nelle singole culture e religioni, mira ad evidenziare un elemento immutabile, ossia la discesa a scopo “salvifico”, la “morte” a vantaggio di un altro. (Mircea Eliade, p.147).
Intrecciare diversi approcci, “confondendo i generi”, ravvicinandoli per analogie esplicative (la concezione in Wittgenstein della vita come analogia del gioco verbale o quella della analogia drammaturgica della vita sociale in Turner costituiscono dei validi esempi), permetterebbe di individuare delle costanti transtoriche, la qual cosa non significa “categorie ideali”, costruite artificialmente, ma delle realtà psichiche, che agiscono indipendentemente nell’inconscio collettivo ed individuale.
La presenza dei simboli, nelle comunità arcaiche, individua una metafisica, espressa attraverso di essi e non attraverso i concetti: ossia una concezione del mondo, globale e coerente, e non una serie di gesti istintivi, retta da una uguale e fondamentale “reazione dell’animale umano davanti alla Natura”.
Il raffronto tra un simbolo oceaniano e un simbolo dell’Asia settentrionale, viene operato non perché essi sarebbero il prodotto di una stessa “mentalità infantile”, bensì perché il simbolo, in se stesso, esprime la presa di conoscenza di una situazione limite (Mircea Eliade, p.156).
“Tutti i fenomeni naturali mitizzati, come estate e inverno, fasi lunari, stagioni delle piogge, non sono allegorie di quegli avvenimenti oggettivi, ma piuttosto espressioni simboliche dell’anima che cerca di rendersi accessibile alla coscienza proiettandosi nei fenomeni naturali.” (Carl Gustav Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo).
“Il simbolo rivela qualcosa di più che l’aspetto cosmico che va a rappresentare: i simbolismi e i miti solari, ad esempio, ci rivelano anche un lato notturno, malvagio, funerario del sole, cosa che, di primo acchito, non è evidente nel fenomeno solare in quanto tale. Questo lato in certo qual modo negativo, inosservato nel Sole in quanto fenomeno cosmico, è elemento costitutivo del simbolismo solare e questo dimostra che, fin dall’inizio, il simbolo appare come una creazione della psiche” (Mircea Eliade, p.156/57).
Inoltre, scrive Mircea Eliade, la risultanza psichica del simbolo si manifesta nella sua funzione di rivelazione di una realtà totale, inaccessibile agli altri mezzi di conoscenza: la “coincidenza degli opposti” ha gioco felice soltanto attraverso il simbolo e la sua semplicità espressiva non può essere certamente resa dal pensiero discorsivo.
C’è da precisare che per il pensiero arcaico non esiste separazione tra spirituale e materiale e dunque, il simbolo non “esprime” soltanto realtà “spirituali”, per cui “un’abitazione collocata al Centro del Mondo, non toglie che essa sia uno strumento che soddisfa precisi bisogni, che è condizionato dal clima, dalla struttura economica della società e dalla tradizione architettonica” (Mircea Eliade, p.157).
Ossia il simbolismo aggiunge un valore nuovo ad un oggetto o ad un’azione, senza per questo intaccare i loro valori propri ed immediati. “Una pietra sarà una ierofania, pur rimanendo se stessa” (Mircea Eliade. p.157).
“Il fatto che un particolare torrente si sia formato perché casualmente Possum trascinava la cosa per terra proprio in quel punto non ne fa meno un torrente. Naturalmente ne fa qualcosa di più, o almeno qualcosa di diverso da quello che un torrente è per noi, ma l’acqua scorre verso il basso per entrambi” (Clifford Geertz, Interpretazione di culture, p.109).
La razionalizzazione della coscienza agisce da cesura.
Il procedimento della razionalizzazione ha trasferito l’archetipo, come immagine collettiva transpersonale, in un’idea ed infine in un concetto da inserire nel proprio canone culturale.
L’affinamento della coscienza ha dunque allontanato l’uomo moderno dalla “prossimità” con l’inconscio-Anima. Essa tenta di rendersi accessibile alla coscienza attraverso il simbolismo del Mito. Il significato inconscio, presagito ma non ancora conosciuto, è stato modificato dalla coscienza ed è diventato rappresentazione solare, lunare, meteorologica o d’altro genere.
Di fatto la costruzione vichiana del “mito dei giganti “ rientra in questo tipo di operazione: il fulmine è l’allegoria dell’idea umana, sulla quale si fonda l’origine dell’illuminismo, come tempo richiamato della perfezione dell’umanità.
La messe di miti dell’origine, dalla quale si è attinto, è stata spogliata di ogni significato inconscio, per costruire un mito ad immagine e somiglianza della coscienza illuministica.
Diversamente, per l’uomo primitivo, in Carl Gustav Jung, il mito è una necessità: non gli basta veder tramontare o sorgere il sole: quell’osservazione esteriore deve costituire un “avvenimento psichico”, deve avere un senso per sé, ossia il sole nel suo peregrinare deve raffigurare il destino di un dio o di un eroe, che alla fin fine, gli vive nell’anima.
Il “presentimento” dei Boscimani, esaminato da Elias Canetti nel suo “Massa e Potere” (Elias Canetti, p. 410), è la particolare percezione di un avvenimento che sta per accadere, che configura un’esperienza sensibile, la cui traccia è da rinvenire nella sfera psichica.
Di contro a Jung si è raramente accettata la tesi che i miti siano in primo luogo “manifestazioni psichiche che rivelano l’essenza dell’anima”.
I miti dovevano essere spogliati della sfera psichica per evitare si potesse affermare che l’uomo primitivo avesse un’anima. Da qui a ridurre i suoi miti a mera spiegazione oggettiva dei fenomeni evidenti il passo fu breve.
Si comprende a questo punto come l’apertura del simbolismo ad un mondo pieno di significato non possa essere chiusa in un’operazione riduttivistica, del tipo simbolo=spirito oppure simbolo=materia.
Un’esemplificazione di un intervento in tal direzione di fatto la rintracciamo nella psicoanalisi freudiana: al simbolo del “grembo” sono stati associati i genitali femminili, quando “grembo è una pluralità, un mondo in cui si celano e risiedono molti contenuti”.
O ancora, all’ Immagine della Madre è stato associato il desiderio di possedere la propria madre, laddove tale desiderio può significare la”beatitudine della Materia vivente non ancora formata, con tutte le sue fratture, cosmologica, antropologica e psicologica”; l’attrazione che la “Materia” esercita sullo “Spirito”; la nostalgia dell’unità primordiale e, di conseguenza, il desiderio di abolire gli opposti, le polarità, ecc.” (Mircea Eliade, p.18).
L’eloquenza dell’Immagine viene frantumata e mutilata, allo scopo di esorcizzarne i possibili significati e piani di riferimento, nello stesso linguaggio parlato; la troviamo spezzettata in “immagine filmica”, “immagine visiva”, “immagine da costruire”, ed ognuna di esse esprime una modalità di estrinsecazione, più immediata e comprensibile, pur sempre di un concetto.
Il mito, l’archetipo si declina in un diverso sguardo.
Parafrasando un brano di Roland Barthes, in Frammenti di un discorso amoroso, possiamo affermare che così come per il testo anche e soprattutto per l’immagine sono possibili due tipi di “lettura”. In una la tensione è spinta tutta verso l’epilogo, a divorare lo scritto, o a consumare l’immagine, approssimandone la morte; con l’altra si scopre il piacere del testo, o il chiaroscuro dell’immagine in quella crepa tra i due bordi in cui si intravvede il godimento, la perdita.
Mentre una lettura mira all’aneddoto, ignorando i giochi di lingua oppure alla traduzione in segno, tralasciando le sfumature dell’immagine; l’altra coglie in ogni punto del testo l’asindeto che taglia i linguaggi oppure il “doppio”, nell’immagine, che sta al di sotto della superficie: non è l’estensione logica ad avvincerla, ma lo sfogliato della significanza.
La differenza tra i due modi di “leggere” un testo o un’immagine rimanda alla questione del simbolo/segno; del “con ombra” o “senz’ombra”: testo/ immagine sterile? Il testo, l’immagine hanno bisogno dell’ombra: “quest’ombra è un po’ di ideologia, un po’ di rappresentazione, un po’ di soggetto; fantasmi, sacche, scie, nuvole necessarie: la sovversione deve produrre il suo chiaroscuro” (Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, p.31).
Il Doppio, il chiaroscuro dell’immagine, fanno parte del dimenticato dalla coscienza, del rimosso, che ritorna e che, per garantirsi la sopravvivenza, prende forme “familiari”, si materializza in quel senso di vuoto a cui non si riesce a dare un nome; va a ingrossare la “nostalgia”; chiude la gola con un nodo nel rimpianto di “ciò che poteva essere e non è stato”; libera, disserrandoli dal “giorno”, i sogni; si immalinconisce alla luce rossastra di un tramonto; diventa “sentimentale” negli amori; viene nominato “infantile” quando affiora negli adulti.
Mircea Eliade afferma che per quanto l’uomo moderno disprezzi le mitologie, che racchiudono gli Archetipi, l’Immagine, il simbolo, tuttavia “ciò non gli impedirà di continuare a nutrirsi di miti decaduti e di immagini degradate” (Mircea Eliade, p.21).
Il mito di Tristano e Isotta, il mito dell’Amore-Passione è giunto fino a noi denudato del suo significato misterico, della sua sacralità (in esso Isotta è il simbolo del Desiderio luminoso, di una Ascesi, di un Amore divino). Purtuttavia mantiene la carica libidica del mito per cui continua a svolgere la sua funzione, anche se non più catartica, perché nelle nostre mani il mito è rimasto, con ogni tormento, ma senza svelarci segreto alcuno.
“Per noi moderni – afferma Denis de Rougemont – non esisterà nessun al di là della passione se non in una nuova passione, nel rinnovato tormento di inseguire parvenze sempre più fuggitive (L’amore e l’Occidente).
Dovremo dunque rileggere il mito come “regressione della coscienza a più antichi contenitori” (leggi archetipi) che, in quanto elementi strutturali dell’inconscio collettivo, possano darci la misura del processo di sviluppo della coscienza individuale, generatasi attraverso l’opposizione di barriere contro l’Indeterminato, il suo Nulla e fornire, altresì la traccia per ritrovare quell’anima — nel mito intesa come principio femminile della materia — dalla quale lo spirito, principio maschile, ad un certo punto, si è forzatamente allontanato.
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