Recensione del documentario “Torri, checche e tortellini”. Docufilm sul primo circolo gay italiano.
Il documentario di Andrea Adriatico “Torri, checche e tortellini” consente di conoscere una pagina storica importante e fondamentale del movimento Lgbt, nato a Bologna tra gli anni 70’ e 80’ con il nome di “circolo frocialista”.
“Torri, checche e tortellini” trae il suo nome dai 3 elementi che caratterizzano la città, sostituendo “tette” con “checche”.
Sullo schermo ascoltiamo le testimonianze dei protagonisti di quel periodo, vissuto con passione e coraggio ed una grande voglia di cambiamento e di libertà.
Inizialmente il “circolo frocialista” era composto da poche persone, le quali si scambiavano opinioni sulla società e discutevano su ciò che li caratterizzava in quanto individui (ad esempio, utilizzavano il femminile per identificarsi ma non tutti erano d’accordo su questa scelta).
Tra le tante testimonianze ascoltiamo le riflessioni di alcuni dei protagonisti del circolo, tra cui Franco Grillini, Beppe Ramona, Luciano Pignotti, Diego Scudiero e Marco Barbieri, del giornalista Del Prete, dell’intellettuale Stefano Casi e dei politici Walter Vitali e Sandra Soster, all’epoca assessori alla Cultura e ai Giovani della città.
Il documentario, con parole vibranti e ricordi dell’epoca (fotografie e video), consente di conoscere quanto sia stato fatto per l’emancipazione di persone, fino a quel momento vittime di ostracismo, senza alcuna dignità riconosciuta. La decisione di richiedere al comune una sede per il circolo, che con il tempo si stava ampliando sempre più grazie alle manifestazioni e all’aiuto di intellettuali che riconoscevano il bisogno di dare “vita” a una società aperta a tutti, fu l’elemento che consentì al movimento di divenire un simbolo e per questo meta di pellegrinaggio da tutta Italia.
Tra chi sceglie di far divenire la sua casa Bologna vi è, ad esempio, Valerie Taccarelli, Marco Barbieri, Stefano Casi e Alessandro Fullin.
La politica fu fondamentale per il riconoscimento dei diritti dei gay, non solo Walter Vitali e Sandra Soster appoggiarono la decisione di una sede riconosciuta dalla società civile ma anche lo stesso sindaco Renato Zangari, Elio Bragaglia e Renzo Imbeni assecondarono la decisione, anche come opposizione alla destra.
La scelta di affidare il “Cassaro di Porta Saragozza”, dopo alcune opzioni non considerate per il movimento accettabili, creò fermento nella società civile e un grande ripercussione storica. Questo perché la sede aveva sulla sua facciata un’iscrizione dedicata alla Madonna di S. Luca ed era uno dei luoghi in cui la processione si fermava. Poteva un movimento gay avere una sede con valenza religiosa, anche se fino a quel momento nessuno si era preso cura di quel posto?
Le parole dei protagonisti sono lievi ma nulla nascondono: le polemiche, il rifiuto dei cittadini nei loro confronti ed il bisogno di far sentire la propria voce, finalmente, dopo secoli di silenzio.
Il 28 giugno del 1982 vi fu l’inaugurazione del Cassero, che fece divenire Bologna la prima città in Italia ad aver dato una sede ad un movimento gay ed una delle prime in Europa.
Erano anni in cui era fondamentale che avvenisse una rinascita, una rivoluzione in grado di affermare il diritto alla libertà e al riconoscimento della propria identità.
L’affermazione della propria identità consente, anche e soprattutto, di poter essere in disaccordo sulle scelte compiute dagli altri, come quella sul racket della prostituzione che diede vita a molti contenziosi e denunce.
In quel periodo vi è l’affermazione di Stefano Casagrande, detto la Cesarina, che divenne direttore artistico del Cassero.
Il movimento, infatti, diede vita a nuova linfa artistica e culturale. Gli spettacoli teatrali, aperti a tutti, consentirono di creare dialogo e di solidarizzare la presenza del movimento gay nella società civile.
Il circolo divenne luogo di incontro e di idee; la cultura acquistò un ruolo sempre più importante, finché Stefano Casi decise di costruire un centro di documentazione per ridare voce all’omosessualità nella storia.
Scegliere di vivere il Cassero era una decisione che affermava la propria identità e solcare la sua soglia era una scelta di coraggio. Era un modo per definirsi.
Nel presente il movimento lgbt è costellato ancora di lotte per l’affermazione di diritti che dovrebbero essere imprescindibili negli esseri umani.
“Torri, checche e tortellini”, attraverso un linguaggio semplice e divertente (evidente ciò, anche, nella scelta di dividere la narrazione in capitoli, ognuno dei quali ha un titolo, una melodia che lo accompagna ed una grafica colorata) fa scoprire o ricordare una storia vicina negli anni, in cui si esprime la “potenza” dell’uomo in grado di lottare per i propri diritti e di definire la propria libertà, anche quando non riconosciuta ampiamente dagli altri.
“Sul Cassero di porta Saragozza si è aperto nella nostra città non tanto un dibattito (sia pure contrastato) ma una battaglia. Con preoccupante rigurgito di perbenismo anche in e da settori imprevedibili; con motivazioni che sembravano, in assoluto, non più utilizzabili. Non posso entrare nel merito delle dichiarazioni ascoltate, in quanto il moralismo che ha paura e si chiude in sé non ascolta, non vede, ha paura non del buio, non dell’ignoto ma perfino dell’ombra sotto casa, non offre appigli – in chi ascolta e legge – se non quelli, appunto, di umori inveleniti. Piuttosto vorrei fermarmi un minuto solo per ricordare che questo problema è uno fra i tanti e urgentissimi che ci stanno davanti. E che, impostandolo e affrontandolo, non si fa altro che aprire un primo spiraglio argomentativo in un groviglio entro il quale si deve avere il coraggio di insinuare e di lasciare la mano. Gli omosessuali al Cassero anche per me devono andarci e restarci, come un servizio che una città giusta e attiva deve riconoscere alle necessità operative e culturali di gruppi che ne hanno il diritto e che escono da una emarginazione secolare. Inoltre perché essi stessi garantiscano di sé, dopo avere voluto esigere questo diritto. Non succederà dunque niente, perché gli omosessuali non sono le streghe, i diavoli, gli ossessi, ma non sono altro che noi stessi, una parte della nostra faccia. Aiutandoli ad agire, aiutiamo i nostri problemi ad uscire dal buio concettuale dei luoghi comuni e della cattiva coscienza. Mi sembra debba essere la ragione di impegnarci su questo e per questo.” Roberto Roversi
l’Unità, 20 aprile 1982.