Riflessioni sulla famiglia e rivoluzione sociale del concetto di famiglia.

Il dibattito sulla comunità LGBT e sulla possibilità per loro di avere bambini mi spinge sempre più spesso a confrontarmi su questo tema: mi rattrista che in Italia il dibattito o le occasioni di incontro tra comunità LGBT e cittadinanza siano praticamente assenti e sempre fortemente caricate di contenuto politico.

L’idea di famiglia LGBT, come l’idea della famiglia moderna non combacia con quella tradizionale e da qui nasce il forte scontro in Italia. Mi sono fermata un attimo a riflettere su queste due parole: famiglia tradizionale. Non è un concetto regalato dal cielo, ma una serie di norme socio-culturali che appartengono ad un momento preciso della storia del nostro Paese. La classica famiglia con molti figli a tavola, con i nonni, zii, cugini, parenti vari. Tutto in un contesto eterosessuale ovviamente. Ma come questo concetto di famiglia tradizionale è stato ideato dalla società, così la stessa società anni dopo ha la possibilità di modificare queste rigide imposizioni. Perché spesso si tratta di imposizioni e prese di posizioni ideologiche.

Facciamo un classico esempio che ci riporta indietro di 60/70 anni. Mio padre è cresciuto in un paesino di 400 persone a circa 1200 metri di altitudine nelle montagne trentine. In una realtà del genere, il potere socio-culturale era nelle mani di tre figure chiave: il sindaco, l’insegnante e il prete. Quest’ultimo controllava le unioni matrimoniali e come ci si rapportava con l’altro sesso. Ed era consuetudine che la donna si sposasse e si sposasse presto, in odo da avere almeno un figlio già a venticinque anni.  E qui nasce il primo mito ideologico che accompagna gli affezionati della famiglia tradizionale: che la donna una volta volesse più figli rispetto alle donne attuali.

Iniziamo col dire che una volta i bambini erano una fonte di reddito per le famiglie, soprattutto quelle povere che erano parecchie in Italia prima del boom degli anni ’70. Avere molti figli era una ricchezza nel vero senso della parola, in quanto più braccia da lavoro equivaleva a più soldi (seppur pochi) in casa. Mia nonna a 6 anni pascolava le tre mucche del suo vicino e a quattordici era a 300km di distanza da casa sua a badare a quattro bambini di una famiglia lombarda. Inoltre, una volta i contraccettivi erano visti come la peste in un rapporto matrimoniale: la Chiesa ti obbligava a non evitare le gravidanze, ma anzi ad accogliere ogni vita nuova. Col risultato che tanti bambini non sopravvivevano dopo numerosi parti della madre. Inoltre, la donna una volta non lavorava, o meglio svolgeva il lavoro più bistrattato del mondo: la casalinga. Stando sempre in casa la donna aveva certo più tempo per accudire molti figli, ma era anche economicamente dipendente dal marito. E qui si sfata il secondo mito: che la donna una volta amasse il marito più delle donne attuali.

Il matrimonio una volta era una tappa obbligata nella vita di uomini e donne e per le donne significava, con tutto il rispetto, dipendere dallo stipendio del marito: episodi di violenze domestiche si sono sempre verificati, tuttavia il divorzio era taboo, così come le denunce alle autorità e andarsene di casa equivaleva ad una stigmate sociale e a miseria quasi certa. Per questi motivi, tante donne sopportavano botte, vessazioni e lo status quo per poter vivere.

La libertà di oggi ovviamente ha un prezzo: una volta il senso del sacrificio era molto più sentito di ora. Quasi nessuno ormai decide di tenersi a casa un parente malato, si preferisce il ricovero. Come insegnano gli antichi Romani in medio stat virtus. Mi auguro quindi di assistere ad un’altra rivoluzione sociale del concetto di famiglia e di sacrificio per la famiglia.

Martina Seppi

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