“Tutto scorre…” di Vasilij Grossman: un ritratto sincero dell’uomo dell’URSS
Il giornalista Vasilij Grossman ci porta nell’inferno collettivo dei campi di lavoro staliniani.
Se pensiamo alla letteratura sovietica, forse l’unico nome che il pubblico medio europeo ricorda con sicurezza è quello di Boris Pasternak (non considerando coloro che sono emigrati dall’URSS, come Solženicyn o Nabokov): in questo modo, sarebbe facile arrivare alla conclusione che, durante gli anni del Comunismo, in Russia e nelle repubbliche socialiste la letteratura fosse stata soppressa insieme alla libertà di parola.
In realtà, nonostante le enormi difficoltà di esprimersi liberamente e, a un livello più concreto, di stampare i propri libri, l’arte della parola non ha mai abbandonato l’intellettualità russa, anche quando si trattava di denunciare i crimini fisici e di coscienza che la dittatura del proletariato aveva effettuato.
Vasilij Grossman appartiene a quel mondo. Giornalista che ha seguito l’Armata Rossa nella sua marcia vittoriosa verso Berlino nel 1945, ha saputo raccontare, nel suo reportage L’inferno di Treblinka, cos’erano stati i campi di concentramento nazisti, e, a seguito della morte di Stalin nel 1953, è arrivato alla conclusione che questi ultimi non erano poi molto diversi dai luoghi di lavoro siberiani dove, durante gli anni del Terrore e poi nel Secondo Dopoguerra, milioni di russi sono andati a morire.
Tutto scorre… è il frutto della sua riflessione decennale sul processo di riappropriazione della coscienza individuale a seguito della morte del dittatore, e allo stesso tempo una denuncia delle condizioni in cui venivano tenuti i prigionieri del Gulag e un ritratto psicologico e sociale dei russi condannati e di quelli rimasti liberi.
È difficile decidere il genere di appartenenza di questo libro: può essere considerato un romanzo dalla vena tolstoiana per il suo ampio respiro e per come l’autore riesce a cogliere l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, a inserire le singole storie nella Storia senza che una delle due sopraffaccia l’altra; allo stesso tempo, però, può essere ritenuto un testo giornalistico di denuncia, soprattutto nei luoghi del libro in cui Grossman parla delle reali condizioni di coloro che venivano condannati, e delle tipologie di umanità che denunciavano e mandavano a morte degli innocenti.
Seguendo le orme del protagonista Ivan Grigor’evič, restato nel lager stalinista per decenni e liberato nel 1953, Grossman ci offre una panoramica del mondo sovietico pre e post Stalin, e così anche le semplici distinzioni tra bene e male cui il lettore può giungere vengono spazzate via.
Alla morte di Stalin segue una letterale resurrezione della coscienza individuale, che era rimasta sepolta per trenta anni, sottomessa alla necessità del progresso e all’infallibilità del Partito.
Degli uomini che hanno denunciato e condannato chi è davvero colpevole? Colui che è vissuto nel terrore fin da bambino, fino ad arrivare a capire che è meglio denunciare che essere denunciato, colui che ha imparato a scuola che né la madre né il padre sono per sempre, ma solo il Partito è lì in qualsiasi momento, o colui che ha ritenuto meno terribile credere che fosse giusto il mondo in cui viveva, piuttosto che ammettere a se stesso la fallibilità dell’idolo di stato?
I confidenti, i delatori, sono uomini pieni di virtù, rimandateli alle loro case; ma fino a che punto essi sono infami, infami malgrado le loro virtù, malgrado l’assoluzione dei loro peccati […]. Sì. sì, essi non sono colpevoli, li spingeva una cupa forza opprimente, li schiacciava un peso di milioni di pud; non ci sono innocenti tra i vivi, tutti siamo colpevoli: tu, imputato, e tu, procuratore, ed io, mentre penso all’imputato, al procuratore e al giudice. Ma perché tanto dolore, tanta vergogna per questa nostra depravazione così umana?
E nel grande universo concentrazionario in Siberia non erano forse presenti uomini che, pur riconoscendo ingiusta la loro condanna, la dichiaravano un errore casuale e non sistematico? O, pensiero ancora più tremendo, una necessità per il miglioramento della macchina statale?
Grossman è riuscito a dipingere – e un riferimento all’arte visiva è corretto più che mai in questo caso, data la vividità della sua parola – le conseguenze più sottili e profonde dell’azione di una dittatura totale su un popolo.
Ci sono pagine di grande pathos in questo breve libro, di 229 pagine, che, terminato nel 1963, è stato stampato per la prima volta solo nel 1970, in Occidente.
Quando Ivan Grigor’evič pensa e racconta a se stesso la storia di Maša, condannata a dieci anni di lavori forzati senza diritto alla corrispondenza alla Kolyma – un campo a regime duro – per non aver denunciato il marito, l’autore riesce a sprofondare il lettore nell’inferno staliniano, glielo fa guardare dagli occhi di Maša, costretta a ogni tipo di sopruso, dalle violenze sessuali delle guardie e delle compagne di cella, all’abbrutimento per il lavoro pesante e per il clima, ai furti di qualsiasi cosa.
E i parenti di Ivan, che sono scampati al pericolo delle denunce, devono fare i conti con un problema diverso ma non meno inquietante: quello della possibile responsabilità personale per la sorte dei condannati.
Tutto scorre… è un processo di riabilitazione per Ivan Gregorev’ič e un processo parallelo di conoscenza per noi lettori occidentali, che fortunatamente non abbiamo conosciuto gli orrori a cui può giungere uno Stato totale.
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In Italia, il carattere vero del comunismo è stato tenuto il più possibile (molto!) nascosto. Non solo dai comunisti italiani (dirigenti politici, intellettuali ‘organici’, sindacalisti, cooperativisti), ma anche dalla scuola italiana e da una vasta rete di complicità e interessi difusa nella “società civile”. Fu decisivo anche il menefreghismo colpevole dei partiti non comunisti (eccetto il PSI dell’era Craxi, per cui fu odiatissimo dai comunisti!) troppo impegnati a ripartirsi il bottino (‘lottizzazioni’) statale nelle sue vaste e molteplici espressioni.
Ciao Armando!
Io credo che nel mondo si siano interessati poco di quello che accadeva in URSS durante gli anni ’30 e ’40 perché le vessazioni staliniane hanno riguardato principalmente i russi, gli ucraini e in generale le popolazioni sovietiche (parlo dei campi di lavoro e della carestia programmata). In seguito si è continuato a non parlarne perché l’URSS aveva liberato mezza Europa dal nazismo.
Ovviamente non si possono giustificare gli orrori di Stalin su suo popolo, però il comunismo sovietico non si è esaurito nella sua figura, e alla sua morte sono venuti quelli che la poetessa Anna Achmatova ha chiamato “gli anni erbivori”.